“The law in this country is only for the poors.”
Siamo, alcuni diranno finalmente, giunti alla stagione conclusiva di Homeland. Otto anni di complotti, tradimenti, attentati, operazioni sotto copertura, storie d’amore impossibili, bipolarismo e chi più ne ha più ne metta. La serie è riuscita negli anni a destreggiarsi tra innumerevoli trame, spesso e volentieri costruite a partire dallo scenario politico internazionale attuale e dalle problematiche maggiormente discusse nel corso dell’anno precedente alla stagione andata in onda (e talvolta addirittura dell’anno in corso), compiendo il più delle volte un ottimo lavoro – peccato per gli scivoloni compiuti sistematicamente in dirittura d’arrivo.
Nel complesso però, Homeland ha sempre tenuto fede al suo nome, regalando al pubblico una spy story d’altissima qualità alla quale forse, negli anni, è mancato sempre un po’ di coraggio (o forse ispirazione) nelle battute finali dei diversi archi narrativi raccontati dagli autori. All’inizio della fase post-Brody, quella che in più di un’occasione abbiamo chiamato Homeland 2.0, le stagioni apparivano collegate principalmente dal rapporto tra Carrie e Saul, rapporto che da sempre ha il compito di fornire continuità ad una serie che sembrava aver virato in direzione di una struttura maggiormente antologica. Da un paio di anni a questa parte, invece, pur conservando questa componente autoconclusiva di fondo, si è cercato di donare una più ampia consequenzialità alle vicende di Carrie e colleghi, forse in vista appunto dell’atto finale e del meritato – e sacrosanto – congedo da parte dello show. A tal proposito, si riparte esattamente da dove ci eravamo lasciati. Dopo le dimissioni della Keane e la logorante prigionia di Carrie in suolo russo, ci troviamo adesso a dover affrontare un’altra emergenza politica, e naturalmente Saul, messo alle strette, finisce come sempre a mendicare un po’ d’aiuto alla sua pupilla. Il tempismo, però, sembra non essere dei migliori. Dopo 213 giorni rinchiusa in una cella, il brusco peggioramento della sua malattia dovuto all’assenza di farmaci e il fallimento al test del poligrafo, l’integrità di Carrie – non solo psico-fisica ma anche morale – viene messa in dubbio. Esattamente come accadde nella prima stagione con Brody, adesso anche la drone queen si trova nella medesima situazione, circondata dalla diffidenza dei suoi colleghi che la credono compromessa.
A Saul però sembra non interessare. Il rapporto che lega i due personaggi, ancora oggi, dopo quasi dieci anni di messa in onda, di difficile comprensione, porta quindi Berenson a farsi guidare dalla cieca fiducia nella sua allieva, ultima risorsa per mettere una toppa sull’accordo di pace da lui mediato tra afghani e talebani e ora vicino al fallimento.
Dopo i dovuti preamboli, utili a catapultarci nuovamente all’interno dell’universo narrativo di Homeland, la storia entra subito nel vivo, utilizzando la sapiente alternanza di due trame – Carrie a Kabul e Max al confine con Pakistan – che hanno il compito di conferire dinamismo e drammaticità a questa premiere stagionale, altrimenti destinata alla pura e semplice disamina politica o, al massimo, alla consueta panoramica dei problemi mentali e familiari della protagonista. Il risultato è buono. Carrie da un lato incontra la moglie dell’oramai defunto Mike Dunne, ex contatto a Kabul, venendo a contatto col dolore di una famiglia spezzata dall’eco della guerra, mentre dall’altro Max, dopo qualche problema di deambulazione e la scioccante rivelazione sul perché della sua presenza sul fronte, riesce a riparare un dispositivo di trasmissione guadagnando perfino il rispetto dei soldati addetti alla scorta.
Le sequenze conferiscono all’episodio il giusto livello di tensione, Carrie alle prese con un classico inseguimento tra le vie strette di Kabul e Max al centro di una sparatoria che, incredibilmente, non conta feriti o deceduti sul fronte americano. Due momenti carichi di ansietà e nervosismo che però, in fin dei conti, si rivelano soltanto degli espedienti per prendere all’amo lo spettatore ma senza che ci scappasse il morto. E a ragion veduta la scelta si è rivelata vincente, portando infine alla realizzazione di un episodio che fa il suo dovere e che inoltre ci lascia con un bel colpo di scena finale, il collegamento forse più forte con la precedente stagione, ovvero l’occhiolino di Gromov (il sequestratore russo) a Carrie, dopo che quest’ultimo esce dall’ufficio del vicepresidente afgano, probabilmente con l’intenzione di creare un fronte unito contro il governo americano.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Paean To The People 7×12 | 1.30 milioni – 0.3 rating |
Deception Indicated 8×01 | 0.60 milioni – 0.1 rating |
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.