“Chapter 36” si apre con una scena che sembra un dejà vu del precedente “Chapter 35”, ossia Frank in tenuta informale in campagna elettorale. Ma la struttura e la storia della puntata prendono una piega ben diversa, sicuramente rincuorante per noi e rinvigorente per lo show dopo i due precedenti passi indietro rispetto all’eccellenza a cui House Of Cards ha abituato gli spettatori.
Non si era ancora visto dall’inizio di questa stagione un episodio così denso di avvenimenti che si susseguono velocemente e inesorabilmente, un po’ come la famosa pallina che scivola sul piano inclinato. La puntata sembra durare molto più del normale ma ciò è da intendere non in senso negativo per lentezza o noia, anzi esattamente l’opposto. Perché se c’è una certezza in questo mondo pieno di incertezze è che in House Of Cards non ci si annoia mai. Questa puntata ne è l’emblema: la storia balza da un personaggio all’altro e da una parte all’altra del mondo affrontando tematiche diverse, da quelle più umane e intime a quelle più generali e politiche facendo sempre attenzione a che lo spettatore non perda il filo delle vicende e, soprattutto, l’interesse per la loro evoluzione. A reggere questo ritmo incalzante è sicuramente la performance recitativa di Kevin Spacey che, in questo episodio in particolare, è riuscito a rendere l’interpretazione di un leader politico carismatico e determinato, vittorioso e perdente, fiducioso e sconsolato, spietato e intenerito, così aderente alla “realtà” (o almeno ad una figura ben delineata nel nostro immaginario di cittadini italiani) che è impossibile non restarne affascinati. Se non sapessimo che in realtà è solo un simpatico e bravissimo attore verrebbe da pensare che Kevin sia proprio Frank e Frank sia in realtà Kevin.
Detto ciò, per quanto, come gli avrebbe ironicamente detto l’amico Bill Clinton, lo show sia realistico al 99%, è anche vero che un Presidente USA che se ne va, con tanto di elmetto e giubbotto antiproiettile camouflage, nella valle del Giordano in piena crisi estera, non è una cosa che si vede molto spesso. Sicuramente è stato un bel escamotage per riportare sullo schermo l’efficacia e la forza interpretativa di Lars Mikkelsen nei panni di Putin Petrov e godersi un altro memorabile face to face tra Frank e il Presidente russo. Nonostante la loro interazione fosse qualcosa di “già visto” non è stata noiosa o ripetitiva e quello che in altri contesti, o serie, sarebbe apparso un semplice remake di scene ben fatte per cavalcarne l’onda del successo, è risultato invece, anche alla luce del colpo di scena “Claire”, un elemento ben riuscito. Oltretutto ha fatto in modo di mettere su uno stesso piano per Frank due vicende, quella politica della crisi estera e quella relazionale con Claire, che finora non si erano scontrate, o meglio non in questo modo. È vero che Claire è (era) ambasciatrice alle Nazioni Unite e ha collaborato, anzi, è stata la principale sostenitrice della missione di pace; è vero che è stata protagonista di più vicende riguardanti la Russia, ma è solo in questa puntata che, venendo messa sul piatto come “merce di scambio” tra Frank e Viktor, assume un ruolo determinante, suo malgrado e a sua insaputa, per le vicende degli Underwood. Il dualismo con cui viene disegnato il suo personaggio, soprattutto in questa stagione diviso tra donna con proprie personalità e ambizione e First Lady, e che è riuscito a portare avanti parallelamente i due aspetti, si dissolve in questo episodio. Claire emerge prepotentemente come moglie, amata dall’uomo più potente del mondo e, per questo, vittima sacrificabile. Nell’arco di una sola puntata passa da punto di forza del marito (come ci e le ricorda Tom accennando al discorso di Frank davanti alla loro vecchia casa) a suo punto debole. Quasi alla stregua di un topos da film dei supereroi in cui il “buono” viene messo alle strette dal “cattivo” grazie all’uso di una persona amata come leverage, Frank deve decidere se sacrificare o no Claire. Ovviamente, dato che non è né buono né tanto meno supereroe, fa la scelta più “giusta” coerentemente con il suo ruolo. Vedremo se l’atteggiamento remissivo che da lì in avanti Claire mette in atto continuerà nelle prossime puntate o si scontrerà con la sua natura di donna ambiziosa e orgogliosa.
Tralasciando la inutile, e oseremmo dire ridicola e imbarazzante, storyline di Remy e Jackie ché, parafrasando Dr. Cox di Scrubs, potremmo sciorinare una lista di cose che ci interessano più delle vostre inutili vite, c’è ancora molto altro per cui questo “Chapter 36” ha conquistato la nostra piena approvazione.
A cominciare da Doug. Se avete letto la nostra recensione del “Chapter 35” ricorderete che si temeva per un’eventuale troncatura netta della sua storyline, con Doug fuori dai giochi politici e accudito dal fratello mentre si disintossica. L’entrata in scena della famiglia del fratello non solo è una boccata d’aria fresca per le atmosfere cupe dello show e, in particolare, quelle respirate da Doug che puzzano di alcool, solitudine e depressione (senza comunque scadere nel banal-sentimentale da film con morale sull’amore per la famiglia più importante del lavoro). Porta anche con sé due spunti di riflessione che si collegano ad altri pezzi della “casa di carte”: la storyline di Gavin/Max e il discorso su libertà e potere, affrontato dai due fratelli, e poi insinuatosi anche nella confessione notturna tra Frank e Tom.
Se la storyline di Doug rischiava di chiudersi in sé stessa, figuriamoci quella di Gavin, pronto a fuggire col nuovo passaporto. E invece, l’andare a parlare con Lisa per darle il numero di Doug in caso l’FBI si facesse vivo, che appare come un’incomprensibile mossa del giovane hacker (o meglio, resta abbastanza incomprensibile per il suo personaggio) potrebbe significare che nelle prossime puntate la vicenda Rebecca potrebbe tornare a galla, considerando il suo legame con Lisa e Doug, rendendo la scelta di Gavin comprensibilissima per gli autori ai fini dell’economia narrativa.
“Sometimes I think that Presidency is the illusion of choice.” Mentre il fratello di Doug gli fa notare che non necessariamente non avere legami equivale ad essere liberi, Frank si rende conto che tutto il potere che ha così ardentemente desiderato ed inseguito, forse proprio per avere quella libertà di scelte e azione che ne consegue, gli si sta ritorcendo contro, mettendolo di fronte a scelte che in realtà di libero arbitrio hanno ben poco.
Per concludere questa lunga recensione di una densa puntata, non si può non commentare il plot twist di Tomhas Yates che confessa che in gioventù, mentre gli altri regazzini de borgata si dedicavano a lavoretti estivi come bagnini al lido o camerieri all’osteria, lui si improvvisava American Gigolò per uomini soli e bisognosi d’ascolto. Come Frank, appunto. Ed è un attimo a far entrare Meechum e Claire e scattava la gang bang alla White House. D’altronde sia l’autista che la moglie di Frank ci avevano visto lungo sullo scrittore dato che si erano dimostrati sempre diffidenti e scontrosi nei suoi confronti. A parte quello di “intrattenitore” resta ancora da capire che ruolo avrà Tom nelle vicende future ma, se all’inizio questo fatto poteva infastidire, man mano che lo conosciamo meglio diventa intrigante. Non ci resta che guardare le restanti tre puntate.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Chapter 35 3×09 | ND milioni – ND rating |
Chapter 36 3×10 | ND milioni – ND rating |
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