“Life is bored gameball, let the flippism guide your rumble.”
Leitmotiv di questa quinta stagione di House Of Cards è il fatto che Frank Underwood si sta rivelando un individuo sempre più antipatico. Non che sia mai stato un simpaticone (anzi è uno dei personaggi più cinici e viscidi mai creati) ma la sua scalata al potere, non priva di difficoltà, e il suo tono beffardo con cui si rivolgeva allo spettatore guardando in camera lo ha reso un simpatico buontempone per tutti
Oggi, in un momento storico in cui nella Stanza Ovale siede il Presidente degli Stati Uniti più antipatico di sempre, sembra che anche i coniugi Underwood si siano adattati a questo mood (anticipandolo poiché la serie è stata girata prima dell’elezione) non sapendo bene chi ha preso spunto da chi.
A riprova di questa affermazione, il fatto che proprio questi monologhi alla telecamera sono sempre meno, puntata dopo puntata, quasi a voler negare questo momento d’intimità, anche se i pochi che sono presenti (come lo stupendo iniziale sul flippismo) rimangono prove di scrittura eccezionali.
Un’antipatia dovuta al fatto che il personaggio pare aver dato finora tutto quello che aveva da dare e questo cambiamento è il risultato della lenta e impercettibile trasformazione di esso, inevitabile per mantenerlo vivo.
Dunque, se le prime due stagioni erano l’ascesa di Frank e la terza e quarta, in un certo senso, la sua caduta e riaffermazione della famiglia Underwood, con conseguente assunzione di Claire a co-protagonista, questa quinta stagione è il superamento di quest’ultima nei confronti del marito.
Questa, in definitiva, l’unica funzione dell’episodio in questione di House Of Cards.
Mentre Frank cerca disperatamente di ri-conquistare voti (stavolta all’interno del Congresso secondo il 12° emendamento, come spiegato brillantemente dal monologo-introduttivo iniziale), facendo la conta dei voti Stato per Stato come a Risiko, continui riferimenti di numerosi personaggi secondari fanno pensare che Claire stia preparando il terreno per la propria candidatura. Cosa che le riuscirebbe bene essendo, in questo momento, molto più popolare ma soprattutto più attiva del marito.
Per chi ha seguito fin qui gli avvenimenti della quinta stagione è evidente come sia Claire quella che più di tutti viaggia da un confine all’altro del territorio americano per diffondere l’Underwood-pensiero. Ed è sempre lei quella che va alle ospitate televisive (mirabilmente ricostruite e degne di Enrico Mentana!) a rispondere alle scomode (e giuste) domande sui segreti del coniuge.
Un “attivismo” da parte della first lady e vice-presidente USA che non passa certo inosservato e che la rende la vera protagonista delle vicende finora raccontate, mentre Frank fa la parte dell’Uomo nell’alto castello (di carte) arroccandosi sempre di più e perdendosi in dialoghi su modellini di battaglia che ricostruiscono le vicende del bisavolo Augustus Underwood (scena che lo rende per un attimo simile a Benjamin Horne di Twin Peaks, anche lui in preda a demenza da rievocazioni storiche).
Quella scena, tra l’altro, ha il merito di creare un simpatico siparietto leggero che stempera la tensione drammatica degli avvenimenti e ridare ritmo a un episodio estremamente lento dove, per l’appunto, l’unico elemento di rilievo è la presa di coscienza di Claire come futura leader Democratica. Ma è anche una simpatica metafora per ribadire il concetto che Frank Underwood è destinato, nonostante i continui tentativi di destabilizzarlo e gli ostacoli che gli si presentano davanti, ad andare avanti sempre e comunque. Che preannunci un probabile nuovo scontro tra i due coniugi con Frank che non ha nessuna intenzione di farsi mettere da parte e Claire che vuole comunque continuare a nutrire aspirazioni per la sua carriera politica?
Questo lo si scoprirà solo nelle prossime puntate (sperando che gli sceneggiatori non decidano di affidarsi al flippismo anche per questo) ma è senza dubbio un buon interrogativo.
Al di là di questa stroyline principale, le altre secondarie (le mosse di LeAnn e Doug al soldo dei rispettivi principali, la gelosia di Claire nei confronti di Thomas, i deputati Alex Romero ed Eleanor Fabio Fazio…) non riescono ad essere così interessanti e non portano a nulla se non a rallentare ulteriormente il colpo di scena finale che fa ripartire l’interesse per le vicende.
In tutto questo manca, inoltre, un vero “villain” (tra virgolette perché il villain è il protagonista stesso) che faccia da contraltare a Frank Underwood. E non può essere Will Conway che non ne ha neppure lontanamente lo stesso carisma, come dimostra la scena in cui viene mostrato a combattere in un videogioco di realtà virtuale, ennesima metafora di come la politica di oggi si giochi più sul virtuale che non sul reale e, proprio per questo motivo, Frank Underwood vince facile in quanto più ancorato alla realtà (sempre in maniera machiavellica s’intende) rispetto ai suoi avversari. La partita politica, insomma, l’ha già vinta Frank dal punto di vista del pubblico, comunque vadano le cose, bisogna vedere se vincerà la partita familiare, ben più ardua. E qui è una questione di strategia non di monetine.
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Laureato presso l'Università di Bologna in "Cinema, televisione e produzioni multimediali". Nella vita scrive e recensisce riguardo ogni cosa che gli capita guidato dalle sue numerose personalità multiple tra cui un innocuo amico immaginario chiamato Tyler Durden!