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“Non so cosa ho visto ma l’ho adorato!”
Questo è il classico commento che si può ascoltare dagli amici o leggere sulle più svariate home di Facebook, riguardante la visione di un prodotto audiovisivo particolarmente “strano” e “bizzarro” agli occhi dei più. Quegli stessi prodotti che, come da citazione, pur essendo particolarmente ostici alla diretta comprensione, riescono comunque nell’intento di emozionare lo spettatore, lasciandolo spesso piacevolmente provato a fine fruizione.
Bene, dopo la visione di “Chapter 7” si può di certo azzardare a dire che Noah Hawley stia quantomeno ridefinendo il contesto di simili esternazioni. A pochi mesi da The OA, a sua volta di poco successivo alla seconda stagione di Mr. Robot, l’evoluzione e, soprattutto, la libertà del linguaggio sperimentale in tv è sotto gli occhi di tutti. Un nuovo livello capace, come si diceva già nella scorsa recensione, di poter far coesistere al suo interno da un lato serie come queste, che fanno della distruzione della narrazione il proprio tratto distintivo, e dall’altro prodotti come Westworld o The Leftovers, saldamenti coesi ad una narrazione, seppur più ricercata e poco lineare, comunque ben presente. La terza Golden Age televisiva americana, d’altronde, è cosa ormai accertata, ma ciò non vuol dire dover smettere di stupirsi.
Bene, dopo la visione di “Chapter 7” si può di certo azzardare a dire che Noah Hawley stia quantomeno ridefinendo il contesto di simili esternazioni. A pochi mesi da The OA, a sua volta di poco successivo alla seconda stagione di Mr. Robot, l’evoluzione e, soprattutto, la libertà del linguaggio sperimentale in tv è sotto gli occhi di tutti. Un nuovo livello capace, come si diceva già nella scorsa recensione, di poter far coesistere al suo interno da un lato serie come queste, che fanno della distruzione della narrazione il proprio tratto distintivo, e dall’altro prodotti come Westworld o The Leftovers, saldamenti coesi ad una narrazione, seppur più ricercata e poco lineare, comunque ben presente. La terza Golden Age televisiva americana, d’altronde, è cosa ormai accertata, ma ciò non vuol dire dover smettere di stupirsi.
Eppure il dubbio, in casi del genere, non tarda ad arrivare, specie se in un presente tanto inflazionato da prodotti di valore, dove l’attenta selezione diventa aspetto imprescindibile: non è che è solo un grande “bluff”? Certo, quando ci si trova davanti ad una serie che affida prima ad un’animazione stilisticamente basilare e poi al muto in bianco e nero le proprie scene cruciali, d’episodio quanto di trama generale, dimostrando discreto coraggio e meravigliosa follia, la risposta potrebbe arrivare da sola. Chi d’altronde sarebbe in grado di affidare a tali momenti salienti una simile straniante estetica? L’altro lato della medaglia in queste operazione è sempre lo stesso, ossia che con il virtuosismo non sempre si accaparra molto pubblico.
Ma Legion, nella scrittura di Hawley & team (sceneggiatrice di puntata, Jennifer Yale), di certo non ha mai mostrato di curarsene particolarmente. Come tutti gli estremi, se l’eccessivamente didascalico è considerato ormai di basso livello, allo stesso modo la scuola dei vari Bunuel e Lynch, di Wes Anderson e Kubrick, ispirazioni palesi dello show, non gode certo di clamore universalmente popolare (ad eccezione dell’ultimo, probabilmente) e, quindi, le accuse e i pareri accesi sono dietro l’angolo. Ma il timore di non raggiungere un largo seguito, può mai essere valido motivo di limitazione per l’arte? Una serie, come un film, come una pièce teatrale, come qualsiasi altro prodotto artistico insomma, deve innanzitutto suscitare emozioni, oltre che raccontare una storia, e non c’è dubbio che Legion lo faccia. La domanda allora è solo una, c’è della qualità?
Ma Legion, nella scrittura di Hawley & team (sceneggiatrice di puntata, Jennifer Yale), di certo non ha mai mostrato di curarsene particolarmente. Come tutti gli estremi, se l’eccessivamente didascalico è considerato ormai di basso livello, allo stesso modo la scuola dei vari Bunuel e Lynch, di Wes Anderson e Kubrick, ispirazioni palesi dello show, non gode certo di clamore universalmente popolare (ad eccezione dell’ultimo, probabilmente) e, quindi, le accuse e i pareri accesi sono dietro l’angolo. Ma il timore di non raggiungere un largo seguito, può mai essere valido motivo di limitazione per l’arte? Una serie, come un film, come una pièce teatrale, come qualsiasi altro prodotto artistico insomma, deve innanzitutto suscitare emozioni, oltre che raccontare una storia, e non c’è dubbio che Legion lo faccia. La domanda allora è solo una, c’è della qualità?
Simili dubbi sono pur sempre legittimi, a fronte di una trama che, tra “Chapter 6” e “Chapter 7”, non può ritenersi chissà quanto densa. Dopo lo scorso episodio, totalmente ambientato nel delirio onirico creato dal Mostro (che, udite udite, ha finalmente un nome, lo Shadow King Amahl Farouk, probabilmente l’unica vera rivelazione per la macro-trama), anche stavolta succede poco per gran parte della puntata, divisibile in tre atti ben distinti. Il primo è prettamente “dialogato” e mette in scena diversi fatidici incontri tra i personaggi “secondari”. Dialoghi recitati in maniera deliziosamente veloce (specialmente il fantastico scambio di battute tra Sydney e Cary, in una surreale cabina), quasi irrealistica, traspirando Wes Anderson da tutti i pori, reggendosi principalmente sul talento degli attori, con un Oliver/Jemain Clement che conferma tutta la gigantesca presenza scenica già suggerita in precedenza, capaci di catturare in toto l’attenzione dello spettatore.
Cosa che accade accade, ovviamente, per il protagonista. Lo “spiegone animato” (definizione che dopotutto tradisce anche una certa furbizia da parte degli autori, rendendo coinvolgente una pratica narrativa spesso avversa ai più), è anticipato dallo sdoppiamento di David, imprigionato in una claustrofobica bara in stile Buried o ancor meglio Kill Bill Vol. 2. La prova attoriale in questo caso è ancor più fondamentale e, esattamente come la collega Aubrey Plaza che, dopo anni di chiamiamola “gavetta” tra Parks & Recreation e commedie indipendenti, ha consacrato il proprio talento nel “Chapter 6”, Dan Stevens (recentemente visto in sala nel remake live-action della Disney Beauty and The Beast, coperto però per quasi tutta la durata dalla pesante CGI) regge perfettamente la difficile scena “interiore”, addirittura fingendo un accento britannico che in realtà già nasconde di suo (essendo originario di Croydon, città a sud di Londra). Proprio come la violenta eroina di Tarantino, è il confronto con le proprie paure e timori a poter liberare David dalla propria condizione di prigionia, facendo assumere alla sequenza anche un certo punto di svolta per il percorso del personaggio.
La seconda parte è quella della messa in atto del piano per sconfiggere il villan, il momento della risoluzione vera e propria, dove però, come anticipato, a farla da padrone è, se fosse possibile, una messa in scena delle più surreali ed incredibili mai viste fin ora. L’espressività mostrata dell’inquietante Aubrey Plaza gioca in simbiosi, esattamente allo stesso livello, col terrificante “gore” dell’efferato omicidio di “The Eye” (com’è chiamato in sceneggiatura, e in effetti è proprio un “occhio” che appare sui muri dell’edificio, poco prima di vederlo morire), amplificato proprio dall’apparente freddezza del bianco e nero e dall’assenza delle voci dei protagonisti. Una scena che sulla carta non avrebbe sicuramente lo stesso impatto “unico” e singolare, se fosse stata proposta in maniere più usuali, in cui è la musica suonata da Oliver, proprio a contrasto col muto, a rendere continue e stimolanti le corde della fruizione. Il debito con la lezione dei formalisti russi degli anni ’20, del montaggio intellettuale dell’eredità di Ejzenstejn, fino al toro maciullato del finale di Apocalypse Now, tutto si fonde, però, con la narrazione del “ritorno alla realtà” dei protagonisti. Sì, perché durante quel deliro di immagini e di idee, qualcosa succede: i buoni vincono, il mostro perde.
Nel terzo e ultimo atto, infatti, si registra l’accelerata improvvisa della trama e, ancora una volta, in modo incomprensibilmente anticlimatico. Il mostro soccombe all’improvviso, così come, senza che lo spettatore quasi se ne accorga, i protagonisti si ritrovano alla base tutti insieme. La dolcezza e la serenità di una colazione consumata in compagnia, sempre a contrasto con la violenza appena vissuta, è resa ancor più straniante dalla presenza di un Oliver totalmente a ciel sereno, così come l’arrivo dei “vecchi” nemici della Divisione Tre.
“Chapter 7” ha così l’onore di non voler cedere ad alcuna limitazione di sorta, di essere coerente con l’evidente ambizione dell’esperimento fin qui portata avanti e soprattutto, sì, di segnare un nuovo livello all’interno del panorama televisivo odierno e, di conseguenza, assolutamente di qualità.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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“Chapter 7” ha tutta l’aria di essere un episodio che ricorderemo a lungo, di quelli che racconteremo ai nostri nipoti o, al massimo, alle ragazze con la volontà di darci un tono. Fatto sta che siamo al terzo Bless di fila per Legion, e manca solo il season finale. Se non è capolavoro questo, cos’altro lo è?
Chapter 6 1×06 | 0.73 milioni – 0.3 rating |
Chapter 7 1×07 | 0.72 milioni – 0.4 rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.