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Owen: “Because there were two options, and neither could end well.”
Terapeuta: “What are the two options?“
Terapeuta: “What are the two options?“
Owen: “Option A, she doesn’t really exist. I look up her name, figure out where she lives, and realize there’s no one on Earth with that name. Next, I go to Neberdine Pharmaceutical Bio Tech and find out there’s no such thing as Neberdine Pharmaceutical Bio Tech.”
Terapeuta:”What about option B?“
Terapeuta:”What about option B?“
Owen: “Option B’s even worse.“
Guardando e dovendo successivamente commentare “Option C”, non si può non pensare a quanto sia difficile immagine un finale di stagione in grado di riassumere, in un solo episodio, tutti i pregi e i difetti della serie intera. Dopo i forti tumulti della precedente “Utangatta” (probabilmente la puntata migliore proprio per il suo essere tanto densa, specie in confronto al resto), che hanno di fatto posto fine all’esperimento “ULP”, era pure prevedibile che si arrivasse ad una resa dei conti conclusiva, un momento di respiro per una dovuta tirata di somme. A sorprendere, allora, è proprio l’alta dose di linearità con cui la storia e il percorso dei suoi protagonisti giungono a destinazione. Tutto va scolasticamente al suo posto, quasi senza intoppi, e andrebbe bene se non stessimo parlando di uno show che si è voluto presentare come visionario e sconclusionato. Ma in fondo si parlava, soprattutto, di sintesi dei difetti, e cos’è stato Maniac, per gran parte della sua durata, se non una promessa continua di qualcosa che non è mai davvero arrivato? Probabilmente è proprio questa la sensazione che il suo autore Cary Fukanaga voleva infondere fin dal principio, visto il fallimento che riserva all’esperimento “ULP” e alla semplicità del lieto fine, ma dal regista di True Detective ci si poteva attendere perlomeno una ricercatezza maggiore. Purtroppo non sempre si dispone di un Nic Pizzolatto alla scrittura.
Un colpo di scena, però, in questa “Option C” c’è, e la si riscontra nella storyline di Owen, nella scena del processo. Una ribellione nei confronti della famiglia, sempre restando sul perfetto manuale di sceneggiatura, era sì pronosticabile, ma probabilmente non di questa portata. Vederlo accusare pubblicamente e, di fatto, condannare il fratello alla prigione è l’evento più forte dell’episodio, forse l’unico evento così incisivo. Prende piede da questo momento, infatti, il classico percorso di riscatto del protagonista, la sua presa di coscienza nei confronti dei principali colpevoli di tutti i suoi problemi, la famiglia e il fratello, da cui decide di darci finalmente di darci un taglio netto e deciso. Diciamo “classico” non a caso, perché c’è davvero poco di innovativo nel modo in cui Fukanaga decide di affrontare e gestire la schizofrenia di Owen: significativo certo, commovente a tratti senza dubbio, ma niente a che vedere con l’estremo coraggio e l’approccio fuori dagli schemi di Legion e del suo indimenticabile “Chapter 14“, per fare un esempio concreto.
Sta tutta qui la linea di confine tra il buon prodotto, sicuramente ben confezionato ma senza lode, che è Maniac e, invece, il lavoro importante, visionario e ammirabile, che all’inizio ci si auspicava di vedere. A conferma di ciò, basta analizzare l’altra storyline cardine della serie, quella di Annie. Qui la presa di coscienza non è solo rappresentata, ma diventa una vera e propria dichiarazione esplicita al padre, in cui la ragazza enuncia in modalità terapeuta la dura verità sui loro problemi, tra la morte della “sorella sbagliata” ed il suo essere così “simile” alla madre che li ha abbandonati. Abbiamo nominato Legion, in cui Noah Hawley è riuscito a raccontare in modo complesso, con poteri mutanti annessi, complesse emozioni umane, che alla fine della fiera non colpevolizzano davvero nessuno, ma nemmeno lo salvano (protagonista compreso). Qui, invece, ancora si riduce tutto alla “colpa dei padri” (o delle madri in questo caso, vedasi anche il perfetto complesso d’Edipo del rapporto James/Greta). Niente di più vero e realistico, niente di più riscontrabile da parte di tanti spettatori che hanno conosciuto simili disagi, eppure niente di più didascalico e ridondante, arrivati alla decima puntata (per la serie:”sì, Cary, l’abbiamo capito!”).
Owen: “Option B. Annie, the same thing happens every time I meet someone or get close to someone. I mess it up. I’m gonna get frustrated one day, and yell at you out of nowhere, over something insignificant I’m fixated on. And then you’ll stop calling back. And you’ll change your number and it’ll break my heart. It’s just easier if you’re not real.”
Annie: “But I am real. You know me. You’re braver than this, Owen. And I will never do that to you. Never.“
Annie: “But I am real. You know me. You’re braver than this, Owen. And I will never do that to you. Never.“
Messo in conto che Fukanaga decide di raccontare la complessità con la semplicità, si può leggere la parte finale d’episodio (e di stagione) con un certo compiacimento. Trovati gli unici veri colpevoli, i protagonisti deboli e perdenti alla fine vincono, perché il destino li ha fatti incontrare, perché legati dal dolore e dal desiderio di andare avanti, insieme. Lo fa James/Justin Theroux, che trova in Azumi la compagna di vita con cui dimenticare le turbe inflittegli dalla madre, e proprio in macchina con lei incrocia l’auto con cui Owen e Annie stanno fuggendo insieme, mentre le racconta la “storia dell’ameba”. Storia con cui si è aperta la stagione e che, con piacevole circolarità, la chiude. L’ameba è alle origini del mondo, perché non ce l’ha fatta da solo, ma ha trovato nell’incontro con altri organismi la forza di evolvere e creare vita. Esattamente come Owen e Annie, incapaci di affrontare le difficoltà che il mondo riserva loro, trovano nella forza donatagli dall’altro il modo di crescere e percorrere insieme un sentiero felice, finalmente.
Possiamo, a questo punto, tacciare Fukanaga di eccessiva ingenuità, ma se, d’altro canto, avesse ragione lui? In fondo trovare un altro essere umano con cui condividere le nostre ansie e paure, e che soprattutto decida autonomamente di doverne avere a che fare, ogni giorno, sarebbe davvero così semplice? La risposta è più che ovvia e, allora, perdonateci l’innocenza se davanti a quell’auto in cui Owen e Annie sfrecciano prendendo in mano le proprie vite, in compagnia di qualcuno che comprende e accetta l’altro per com’è, ci facciamo scappare volentieri un sorriso emozionato e soddisfatto.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Dubbi di sceneggiatura a parte, “salviamo” Maniac perché resta un prodotto ben confezionato, divertente a tratti, con un ottimo regista e con un cast davvero stellare. Magari troppo scontato e prevedibile nello sviluppo, ma con qualche spunto creativo interessante, come quello sui generi cinematografici (anche se quest’anno c’è già stato un prodotto di questo tipo decisamente più esaltante). Il fatto che la presenza di tante importanti star del grande schermo non facciano quasi più notizia (abbiamo già avuto Fargo, per dire), inoltre, apre solo ad uno dei principali motivi per cui la serie sarà probabilmente dimenticata negli anni a venire: il contesto televisivo attuale. Tutto quello che di nuovo Maniac potenzialmente poteva dire o mostrare, dalla fotografia al neon agli ambienti anni ’80, dal coinvolgimento di grandi volti del cinema alla messa in scena assurda e scombinata, in realtà è già stato fatto, e probabilmente anche meglio. Nell’era della peak tv che stiamo attraversando, semplicemente fare un prodotto di questo tipo non basta più.
Utangatta 1×09 | ND milioni – ND rating |
Option C 1×10 | ND milioni – ND rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.
…e se fossero rimasti bloccati nel programma? D’altronde il finale è pari pari quello che Owen aveva raccontato come suo “piano” dopo l’episodio del capitolo perduto del Don Chisciotte.. e anche i nomi scritti sul registro dell’istituto psichiatrico.. Wendy Lemure?!
Oddio, in realtà io mi rifiuto, preferisco pensare a un lieto fine 🙂