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Danny: “You asked me to remember what I was fighting for. Truth is it isn’t Matt Murdock’s mission, or our neighborhood. It isn’t Davos. It’s not even you, Colleen.
All I’ve been fighting for is the power of the Iron Fist. The heart of the dragon. I can feel it calling me. And because of that, it will always make me a danger to the people I care about the most.
Physically, I’m ready to face Davos. We can stop him. But when he’s subdued and we perform the ceremony I can’t take the power back. If we take the power out of Davos it has to go somewhere.
Someone has to hold the Fist.”
Colleen: “I know.”
Danny: “I think it should be you.“
Someone has to hold the Fist.”
Colleen: “I know.”
Danny: “I think it should be you.“
Chi scrive è probabilmente uno dei pochi (anzi, pochissimi) che ha apprezzato la prima stagione di Marvel’s Iron Fist, e ha continuato, imperterrito, ad avere buone sensazioni anche durante questa seconda, seppur messe a dura prova costantemente. Iron Fist è una serie sicuramente lontana dall’essere perfetta, eppure proprio quando stai per gettare la spugna all’eventualità di vederla finalmente decollare, ecco che gli autori ti piazzano quell’idea, quell’intuizione spiazzante, sicuramente coraggiosa, che spinge nuovamente a continuare a sperare. Il problema è che tutto il percorso di Danny Rand è stato pieno di scelte interessanti, all’inizio, ma che hanno avuto poi uno sviluppo successivo più che deludente, se non sconfortante.
Si prenda ad esempio l’ultimo a dir poco scioccante, almeno per le sorti dello show, dialogo tra Danny e Colleen, sopra riportato. In quale altra serie supereroistica, il potere che contraddistingue il protagonista, cambierebbe “padrone” a tempo indeterminato? Naturalmente ancora non è avvenuto nulla, anzi si potrebbe pensare più ad una semplice provocazione, giusto per ridestare l’interesse dello spettatore, ma anche solo parlarne, in questi termini, è qualcosa di raramente visto in altri lidi, nel bene e nel male. Al cinema e alla televisione si è infatti abituati ai cambi degli attori e quindi dei volti degli eroi. Ci sono stati più Bruce Wayne (forse anche troppi, ultimamente), diversi Peter Parker, ma non c’è mai stato un Superman che non fosse Clark Kent o una Torcia Umana che non fosse Johnny Storm. Questa pratica è molto più avvezza al mondo dei fumetti e, quella di tenere ben presente l’origine cartacea, con tutti quegli strani e assurdi nomi che il personaggio si porta dietro difficili da risultare credibili sullo schermo (senza dimenticare il Drago), è una delle qualità che ha reso Marvel’s Iron Fist se non unica, quantomeno “diversa” dalle altre serie gemelle.
Croce e delizia di questa particolare operazione non è tanto Colleen, vera co-protagonista fin dalla scorsa stagione e personaggio più che maturato nella seconda, ma proprio la gestione, globale, di Danny Rand. In quelle parole finali si può leggere, infatti, quasi un’ammissione di colpa da parte degli sceneggiatori, oltre alla grande presa di coscienza dell’eroe, che si vuole invece far trasparire. La pecca nella scrittura di Danny sta proprio nell’aver costruito la sua psicologia tutta attorno all’Iron Fist e a poco altro. E quando l’Iron Fist ha iniziato a fargli del male è naturale che tutte le convinzioni che l’hanno fatto “sopravvivere”, come dice Colleen stessa, abbiano inesorabilmente ceduto. Essere arrivato, allora, a voler rinunciare al potere del Pugno d’Acciaio, ossia quello che lo definisce come persona più di ogni altra cosa (“Truth is it isn’t Matt Murdock’s mission, or our neighborhood. It isn’t Davos. It’s not even you, Colleen. All I’ve been fighting for is the power of the Iron Fist“), è indubbiamente un passaggio fondamentale per la sua evoluzione. Una bella intuizione, come detto, che piaccia o meno, e che potrebbe far smuovere il personaggio dalle stesse frasi e dagli stessi concetti ripetuti allo sfinimento (neanche la sfida dei nastri è stata risparmiata) per tutti gli otto episodi visti finora.
I rischi, invece, son quelli già noti, ossia che una simile occasione per approfondire e veder maturare il protagonista possa risolversi in una consueta, superficiale e più innocua svolta finale, del tipo che mettono d’accordo tutti. Basti pensare a quello che è diventato Davos, a come gli autori sono stati coraggiosi nel rendere tanto efficace la sua corruzione nei confronti dei ragazzi/allievi. Se l’evoluzione è delle più classiche (villain che parte con azioni apparentemente positive per la società, come l’assassinio dei criminali, per poi cominciare a coinvolgere anche gli innocenti che non gli vanno a genio), l’omicidio a sangue freddo di un allievo, da parte di un suo compagno e amico, è piuttosto forte. La follia di Davos e la sua potente presa sulle menti più deboli ha la sua efficacia, tanto che in tutta la sequenza del furto della ciotola, orchestrato da Joy e BB, la tensione è davvero alla stelle e si ha davvero paura per l’incolumità dei due “buoni”. Peccato allora, anche stavolta, che lo scaltro Davos si faccia poi imbrogliare tanto facilmente e, soprattutto, che il rapporto forzato tra lui e Joy renda debole praticamente ogni loro iterazione.
A condividere il destino delle occasioni mancate, si aggiunge infine la storyline di Mary/Walker. La rivelazione che neanche Walker ricordi la natura della fuga dalla prigionia di Sokovia, è tanto intrigante da riportare alla mente The Prestige di Christopher Nolan e quel passaggio in cui Christian Bale, attraverso il proprio diario, dichiara a Hugh Jackman di non conoscere quale nodo abbia eseguito, lui stesso, durante il numero che ha portato alla morte della moglie dell’amico. Potenzialità psicologicamente infinite, quindi, che però portano il personaggio ad azioni e riflessioni perlopiù inconcludenti, nelle scene che la vedono successivamente protagonista. E allora viene quasi da pensare che se Marvel’s Iron Fist fosse una mini-serie, ossia se non si dovesse per forza arrivare ai dieci episodi o all’ora di puntata richiesti, o semplicemente se a quell’indiscutibile dose di coraggio si aggiungesse anche una struttura narrativa più solida e di alta qualità, la serie potrebbe davvero essere tra le migliori della Marvel. Sì, potrebbe.
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Fossero state tutte come questa “Citadel On The Edge Of Vengeance”, perlomeno in termini di quantità di eventi e rivelazioni, questa seconda stagione sarebbe stata decisamente molto più che “salvabile”, nel complesso. E invece l’impressione dominante è che ad apprezzare, tutto sommato, la serie siam rimasti in… boh, tre?
Morning Of The Mindstorm – 2×07 | ND milioni – ND rating |
Citadel On The Edge Of Vengeance – 2×08 | ND milioni – ND rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.