Il mondo dello sport e il carcere sono due universi che, nel corso dei decenni, si sono incontrati spesso e volentieri. Raramente, però, una star mondiale del calibro di Mike Tyson ha passato anni all’interno di un carcere di media sicurezza, insieme ai detenuti comuni. Per questo motivo, dedicare un episodio alla prigionia di Tyson a Indianapolis era doveroso.
L’episodio, un po’ a sorpresa, è ancora più breve del solito, con una durata di poco superiore ai 20 minuti. Si potrebbe obiettare che il ridotto minutaggio abbia compresso eccessivamente le vicende e abbia ridotto una prigionia complessa e articolata in una serie di piccoli spezzoni che lanciano mille indizi senza approfondirne nessuno. Ciò è vero ma, al contempo, si tratta della cifra stilistica che Mike ha scelto sin dall’inizio.
Una serie rapida e veloce che ha l’ambizione di riassumere la vita e carriera di un’icona planetaria in 8 episodi lunghi dai 20 ai 30 minuti. Una scelta che comporta pregi e difetti, come è inevitabile che sia. Al lettore e al recensore la ponderazione dei due fattori.
UNO, NESSUNO, E CENTOMILA MENTORI
Giunti al sesto episodio dello show, un elemento è emerso chiaramente: Mike Tyson, nel corso della sua vita, ha incontrato dozzine di persone che hanno cercato di essere consiglieri, mentori o semplicemente dei buoni amici. Partendo dal suo amico d’infanzia Barkim, passando per Cus D’Amato, fino ad arrivare al suo compagno di cella che gli consiglia di leggere The Constitution, in modo da rendere proficua e utile la sua prigionia. Al tempo stesso, altrettante persone si sono avvicinate a lui con il solo scopo di trarne vantaggio in termini economici o di notorietà mediatica. Nelle scorse puntate si è conosciuta la figura di Don King, mentre in questo episodio è stato il controverso professore di Harvard, Alan Dershowitz, a fare un breve cameo.
Questa pletora di persone alle quali Mike prova ad affidarsi racconta di una persona che, nonostante i trofei e la fama, ha difficoltà a navigare nel mondo che lo circonda. Al di fuori del ring, Mike Tyson è una persona che ha bisogno di sentirsi apprezzata e che ha bisogno di una guida che gli dica cosa fare e che gli fornisca anche una costante approvazione.
LA CONVERSIONE E L’USCITA
Seppur nella sua brevità, la descrizione della prigionia di Tyson è ricca di spunti significativi. Come mostrato nelle scorse puntate, Tyson ha passato gran parte della sua adolescenza in carceri di vario tipo, dunque non ha avuto bisogno di un periodo di adattamento. Tutt’altro, dato che ha ben presto avviato un mercato nero di beni all’interno del carcere. Inoltre, va sottolineato che – pur essendosi macchiato di un crimine considerato come particolarmente odioso da parte degli altri detenuti – Tyson è stato sin da subito trattato come una star anche all’interno della casa circondariale.
Oltre alle risse con le guardie e il contrabbando, però, Tyson ha anche un cambiamento spirituale nel corso degli anni di carcerazione. La sua conversione all’Islam permette anche di effettuare un rimando a un fenomeno sociale poco conosciuto fuori dai confini degli USA, ma non per questo non rilevante: il rapporto tra la comunità afroamericana e l’Islam. Si pensi, ad esempio, alla Nation of Islam di Louis Farrakhan oppure, rimanendo in un ambito più sportivo, a Muhammad Ali. Nel caso di Tyson, la religione è coerente con quanto detto nel paragrafo precedente: Allah è semplicemente un altro mentore, un’altra figura alla cui Tyson si affida per farsi guidare nella vita di tutti i giorni. Prima c’era Cus, poi c’è stato Don King. Ora c’è Allah.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
|
|
Tyson è uscito di galera. Sembra un uomo nuovo, ma Evander Holyfield ci può garantire che questo cambiamento non durerà molto. Ad essere precisi, non durerà neanche due episodi da 25 minuti.
Quanto ti è piaciuta la puntata?
0
Nessun voto per ora
Tags:
Romano, studente di scienze politiche, appassionato di serie tv crime. Più il mistero è intricato, meglio è. Cerco di dimenticare di essere anche tifoso della Roma.