Giunti ufficialmente al giro di boa di Moon Knight, la serie regala un terzo episodio sostanzialmente in linea con i precedenti per quanto riguarda pregi e difetti, configurandosi come uno dei più classici prodotti Marvel/Disney: semplice, comprensibile (salvo alcune cose ancora poco chiare ma che sicuramente verranno approfondite ulteriormente nei prossimi episodi) e perfettamente congruo dal punto di vista del suo – ampio – target di riferimento.
Al netto di alcune leggerezze commesse in fase di scrittura, che verranno analizzate in seguito, questo episodio riesce nell’intento di offrire un certo tipo di intrattenimento, leggero e senza troppe pretese, perdendo però qualcosa rispetto all’oltremodo promettente avvio di stagione messo in scena nelle prime due puntate.
L’IMPORTANZA DI AVERE UN BUON AVVOCATO
Nonostante ci si sia riferito a Moon Knight con l’appellativo di “classico prodotto Marvel/Disney”, si è ben coscienti del fatto che la serie abbia regalato al suo pubblico qualcosa di nuovo, una ventata di novità in un universo narrativo, quello del MCU, non esattamente votato al cambio di paradigma. La durata contenuta della stagione, però, sembra aver costretto Jeremy Slater ad una brusca accelerata, la quale ha portato, come immediata conseguenza, ad un’eccessiva frammentazione della puntata – coadiuvata anche dai bruschi cambi di prospettiva dovuti al disturbo della personalità del protagonista.
Tenendo conto che Moon Knight, inizialmente, era stato concepito come soggetto per il cinema, non è difficile capire perché la trama, naturalmente allungata per coprire tutte e sei le puntate, risulti un po’ sconnessa e spesso tenuta assieme grazie ad espedienti narrativi che vanno un po’ a cozzare con le reazioni umane risultando spesso e volentieri un po’ forzati. Il risultato finale resta comunque valido, ma nel complesso ci si trova ben lontano dai livelli dei primi due episodi.
Basti pensare alla capacità di giudizio degli dei (e dei loro avatar dal look molto proletario), completamente votata alla casualità e apparentemente soggiogabile da chiunque possegga un minimo di dialettica ed eloquenza. È sufficiente infatti il tono pacato e la parlata sciolta di Harrow per convincere gli dei della sua innocenza e della colpevolezza di Khonshu, intento nel frattempo ad urlare in faccia al suo rivale frasi molto ben articolate quali: “Basta!”, “Bugiardo!”, “Sta’ zitto!”, dimenticandosi tra l’altro che per accusare qualcuno occorrono anche delle prove. E meno male che quello stupido doveva essere Steven.
O ancora, all’eccessiva preoccupazione degli dei in merito al non venire scoperti dagli umani, in un mondo dove l’apocalisse bussa alla porta due volte a settimana e dove probabilmente nessuno manco si stupirebbe per una simile rivelazione; all’impossibilità di arrivare ad una data accurata a tal punto da beccare l’esatta posizione delle costellazioni e soprattutto al fatto che un rewind delle stelle nel cielo non abbia alcuna ripercussione su spazio o tempo; concludendo poi con la battaglia avvenuta poco prima del finale, decisamente fin troppo didascalica e a tratti straniante per via della bizzarra scelta di mettere in scena, così a caso (si tratta in realtà di una tradizione egiziana, ma per lo spettatore meno avvezzo risulterà del tutto casuale), una giostra medievale a cavallo nel cortile di Anton Mogart – che ha il solo pregio di mostrarci una delle ultime interpretazioni di Gaspard Ulliel, recentemente scomparso all’età di 37 anni.
FENOMENALI POTERI COSMICI IN UN MINUSCOLO SPAZIO VITALE
Si tratta quindi di un episodio molto più transitorio rispetto ai precedenti, dove la storia non si muove più di tanto prendendo solo un piccolo slancio grazie al “sacrificio” finale di Khonshu, fiducioso nei confronti del suo avatar Marc per quanto riguarda un futuro salvataggio. Un episodio dove forse si è preferito il sensazionalismo visivo al reale approfondimento di personaggi e dinamiche, ma che comunque ha il solito pregio di mettere in mostra tutto il talento di Oscar Isaac nel mettere in scena due personaggi agli antipodi in maniera impeccabile e di mostrare un po’ di sana azione condita da effetti speciali che, come già detto in precedenza, restano sullo stesso livello offerto dai primi due episodi.
Molto interessante il dubbio instillato nella mente dello spettatore da Marc e Steven in merito ad una possibile terza personalità che potrebbe aver causato l’accoltellamento di cui nessuno dei due ha memoria, personalità che potrebbe essere quella che ha chiesto di uscire alla ragazza del primo episodio o che, formulando un’ipotesi molto azzardata, potrebbe addirittura rispondere al nome di “Scotty“, appellativo con cui il guardiano del museo J.B. continua imperterrito a chiamare Steven ogniqualvolta lo incontri.
Ben poco ancora si sa su Steven Grant, Marc Spector e sulla loro probabilmente lunga convivenza all’interno dello stesso corpo, fatto sta che la curiosità attorno alle cause scatenanti di questo disordine della personalità al momento si attesta tra le più succose, a maggior ragione in virtù della possibile esistenza di un terzo character all’interno della tormentata coscienza del protagonista.
L’introduzione di Steven/Marc e del suo Moon Knight all’interno del MCU procede sempre molto bene, soprattutto pensando che si tratta della prima serie televisiva ad introdurre una new entry in questa nuova fase dell’universo narrativo Marvel. Oscar Isaac conferma la chimica con il suo personaggio ed esteticamente la serie ha decisamente offerto al suo pubblico qualcosa di diverso. Adesso non resta che vedere quale direzione prenderà la seconda parte della stagione.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Uno dei più classici episodi di transizione, farcito di dubbi espedienti narrativi utili a mandare avanti la storia abbastanza velocemente senza fermarsi troppo a riflettere su quanto accada, ma anche molto valido dal punto di vista del mero intrattenimento televisivo. Non un capolavoro, soprattutto se messo in relazione con i suoi due predecessori, ma sicuramente un episodio del tutto sufficiente.
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.