R.I.P. (Recenserie In Peace) – SkinsTEMPO DI LETTURA 10 min

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Skins recensioneSono presenti diversi e decisivi spoiler. L’articolo è indirizzato a chi abbia fruito dell’intera serie (o a chi poco dovesse importare).

Il vantaggio delle serie antologiche è quello di avere sempre delle buone possibilità per ricominciare. La serie antologica è solitamente un film dilatato che mantiene, tra le varie stagioni, singoli dettagli come l’ambientazione, il clima, gli attori, la regia. Sono sempre esistite. Alcune di esse hanno raggiunto un livello di celebrità stellare, difficile però trovare un tipo di antologia come quello proposto da Jamie Brittain e Bryan Elsley. Skins potrebbe essere definita una serie “bi-antologica”. Nel totale di sette stagioni da cui è composta, la divisione è ben delimitata: per sei stagioni si prosegue su un’alternanza di tre diversi cast che segnano un passaggio generazionale continuo nello stesso college. La settima stagione è un discorso a parte.

L’idillio nel caos
Un grandissimo tuono irrompe nell’immaginario adolescenziale nel 2007 (per noi in Italia nel 2008). E’ un teen-drama, apparentemente come tanti. Parlando di Skins si potrebbe facilmente sviare l’attenzione e annichilire la curiosità di un curioso neofita rispondendo vagamente a proposito di un gruppo di adolescenti presi (e persi) nei loro problemi. Stilisticamente è ben di più. Una fotografia particolarissima basata su luci accese e colori molto intensi, racconta con stile simbolico e autoconclusivo il percorso di crescita macroscopico e microscopico dei personaggi presentati. A fare da contrasto, vicende tutt’altro che spensierate e delicate: droga, anoressia, tese questioni familiari, tradimenti e morte.
La grande abilità dei registi e sceneggiatori di Skins è quella di dipingere foschi e desolati panorami inglesi (un’anonima Bristol), come già detto, contrastati da musiche catartiche e intime, scenari fatati e un’alienazione continua e sognante.
La particolarità che ha contraddistinto Skins, riuscendo a trovare un senso estetico anche agli episodi meno riusciti (che non mancano), è quella di regalare allo spettatore un diverso punto di vista: ogni episodio vede un diverso personaggio protagonista. Ciò non significa una maggior porzione di minutaggio nell’episodio, bensì un vero e proprio monologo scenico che quasi sempre porta ad un’illuminante conclusione. La fine della giornata per il personaggio coincide con un simbolico raggiungimento di una pace o di una fugace illuminazione, destinata comunque a durare poco. In quel momento gli altri personaggi si pongono nello sfondo, anonimi ed esterni comprimari (magari protagonisti nell’episodio precedente), in un disorientante cambio di prospettiva per lo spettatore. Se un personaggio si presenta contrapposto al protagonista in questione, risultando superficiale e negativo, si può star ben sicuri che nel seguente episodio si potranno comprendere tutte le situazioni di sfondo che hanno portato a quel determinato apparente profilo.

 

Il caos dopo l’idillio
Vicende tutt’altro che spensierate, si è detto: droga, anoressia, tese questioni familiari, tradimenti e morte. Ciò che ha reso Skins una serie di rottura nell’ambito teen è la rottura stessa della barriera edulcorante che spesso ha contraddistinto gli omologhi prodotti provenienti dagli USA. Anzi, si può parlare di un discorso diametralmente opposto: la sospensione dell’incredulità deve attivarsi proprio nell’ottica dell’accettazione di un mondo giovanile portato sempre all’estremo negativo. Una serata tra amici si trasforma sempre in un rave party dove la specialità della casa sono droghe sintetiche, alcool e musica pulsante. La vera estetica di Skins, o meglio il quadro che può rimanere impresso allo spettatore, è quello della mattina dopo. Un insieme di corpi sparsi, dormienti in un lercio appartamento devastato la sera prima, esprimono una nuova forma di intimità e intimismo. L’hangover diviene uno stile di vita, lo status quo da cui si vanno sviluppando i profili dei vari personaggi. Personaggi che non sono figure angeliche, immacolate e ideali, bensì sgraziate, spesso sgradevoli e, appunto, come uscite da un’enorme sbronza. L’inglese “dialettale”, poco british – per come lo possiamo concepire noi -, è il simbolo di questa antieroica rappresentazione, filtrata dalla sopracitata fiabesca fotografia. In sostanza: vengono creati anti-eroi di finzione (quindi pur sempre eroi), viene inserita in loro una fortissima iniezione di realtà (anche eccessiva), per poi aggiungere un grandissimo distacco dalla realtà con il mondo luminosissimo che viene rappresentato.
Ironico poi come una serie creata da padre e figlio possa mettere in scena così tante diatribe familiari. Con poche eccezioni, non esiste un personaggio che viva una questione familiare serena: genitori assenti, single, complessi o semplicemente stronzi. Significativo l’aspetto che vede i genitori gay di Frankie (dell’ultima generazione – stagioni 5 e 6) come tra i pochi veramente di supporto. Peccato che Frankie stessa dimostri problemi di bipolarismo tali da far pensare più ad una scrittura del personaggio a dir poco allegra, che alla sua effettiva personalità coerentemente concepita. Da segnalare l’eccessivamente esasperato tragico finale riguardante il padre di Sid (prima generazione) – interpretato da Peter Capaldi – che preannuncia il tema ricorrente, nonché il peccato originale di Skins.

 

Schemi preannunciati
La seconda stagione finisce in tragedia. La morte di Chris, una delle figure più commoventi della prima generazione, segna definitivamente il resto dei personaggi. Il difficile percorso, tracciato durante le due stagioni, trova il suo culmine in un lutto. Lutto che dovrebbe rappresentare terra straniera per un manipolo di adolescenti. La morte irrompe prepotente a distruggere caos e idillio con cui è stato intrattenuto lo spettatore per le due stagioni.
Se la sorte di Chris rappresenta un picco tragico coerente con quello che è stato presentato, coerente con i caratteri della serie, eppure doloroso e scomodo per lo spettatore, la stessa cosa assume tinte maggiormente grottesche per la seguente generazione. Con la fine della quarta stagione, si cerca di affondare maggiormente la lama nel cuore già ferito dello spettatore. La seconda generazione è diversa dalla prima (eppure collegata dalla presenza di Effy Stonem, sorella di Tony, primo “protagonista”), i personaggi rappresentati nascono come magnifiche varianti dei primi, da cui lo spettatore fatica a distaccarsi. Un ottimo finale di terza stagione, con l’affermazione del problematico Cook, catapulta la narrazione nel macabro e tetro palcoscenico della quarta. La fine di Freddie è violenta e improvvisa, quanto crudele e, forse, gratuita. Lo shock iniziale del brutale omicidio e la maestria del finale aperto portano, inizialmente, all’idea di star guardando uno show che ricalca fedelmente gli stilemi della tragedia. Solo in un secondo momento ci si rende conto che Freddie e la sua improvvisa fine hanno semplicemente confermato il precedente di Chris, evidenziando così un modus operandi prevedibile nella scrittura degli autori.
La terza generazione rappresenta la discesa della serie, già iniziata con la ripetizione del luttuoso esito. I nuovi ragazzi riescono comunque a trasmettere empatia, grazie anche a schemi collaudati di caratterizzazione e ad una rappresentazione scenica sempre di ottima fattura (così come il commento musicale). Tuttavia una serie di situazioni già viste si avvicendano, portando così ad un trascurabile finale di quinta stagione che altro non fa che caricare il povero spettatore di timori, neanche si trovasse in uno show di gangster dove, in ogni episodio, qualcuno potrebbe lasciarci le penne. A dimostrazione che Brittain ed Eisley non riuscissero a distaccarsi dal tracciato, l’unica cosa che avviene è il cambio dell’ordine degli addendi. E, come si suol dire, il risultato non cambia. Far morire la dolce Grace nei primi due episodi della sesta stagione fa pensare ad una variazione sul tema dove, per una prima volta, ci viene mostrata l’elaborazione del lutto dei personaggi. Il risultato non è comunque dei migliori: una riduzione del minutaggio dedicato ad alcuni personaggi, oltre all’inutilità delle storyline di altri vanno a contribuire ad una stagione deludente. Temi come la droga, il bipolarismo (spesso derivato da una cattiva scrittura dei personaggi, vedi Frankie), la maternità e la famiglia si ripropongono statici e ripetitivi. Il commovente e, per una volta, ottimista finale, anche se caratterizzato dalla banalissima immagine di una nascita, non basta a salvare una serie che ha fatto della ripetizione e della ripetitività (nascosta dall’apparente cambiamento radicale degli interpreti, ogni due stagioni) il vero ostacolo alle premesse promettenti e ad una fattura comunque originale.
L’impressione che se ne ricava, tirando le somme, è quella di un insieme di appunti e di bozze messe in scena prima di una definitiva elaborazione. Arrivati alla fine della bozza non sviluppata, si dà il via ad un’altra, con le stesse caratteristiche della precedente ma con diverse raffigurazioni. La discontinuità di altre serie britanniche risulta, comunque, più fluida dello stacco continuo di Skins. Inutile citare Doctor Who con il suo fantastico stratagemma nel cambio interpreti che, comunque, mantiene una (lunga) continuità nella storia; si può poi citare Misfits dove, ad un calo di interesse dovuto a una probabile mancanza di idee, non si può non riconoscere una unica linea narrativa (inutile, poi, citare l’antologico Black Mirror).
Si parlerà, nell’ultimo paragrafo, della settima stagione di Skins, tentativo maldestro e ingenuo di solidificare un linguaggio realista e pessimista, cercando di dimostrare la capacità di saper raffigurare anche il mondo adulto. Non ce n’era tutto questo bisogno.

 

Serie generazionale
Prima di parlare della settima stagione, però, occorre aprire una parentesi. Un teen drama ha la caratteristica di rappresentare dei teenager, evidenziando, se possibile, la loro personalità ma soprattutto la loro evoluzione. Quindi, un teen drama non deve essere per forza indirizzato a spettatori della stessa età dei personaggi. Potrà esservi una maggioranza di pubblico adolescente, questo sì, ma non vi è una netta preclusione per le altre fasce anagrafiche, soprattutto perché l’evoluzione e quindi la crescita (anagrafica e non) sono elementi che garantiscono movimento narrativo, avvincente per tutti (se trattato bene, ovviamente). Quindi una qualsiasi serie teen è, banalmente, la storia di uno o più personaggi in un determinato arco di anni adolescenziali e post-adolescenziali. Skins, con il suo ricambio generazionale, è l’esatto contrario: la rappresentazione di un’età precisa, con un determinato arco di personaggi.
Il sottoscritto iniziò a sorbirsi le vicende della prima generazione quando aveva grosso modo gli stessi anni (16-17), trovando così diversi riscontri reali nella finzione dello schermo televisivo. E’ ovvio poi che tra i 17 e i 20 anni cambia tutto. Assistere, tre anni dopo, nuovamente alle vicende di diciassettenni non fece altro che alterare la percezione del tutto. Il contesto anagrafico è ovviamente casuale, ciò non toglie che la ripetitività, oltre che degli schemi narrativi di cui si è già parlato, anche di un universo circoscritto ai vizi e ai costumi dell’adolescenza inglese, senza un minimo di ricambio, non abbiano certo garantito lunga e florida vita allo show.


Fallimento finale
Altro pattern è stato quello dei finali sospesi, considerando così proibito il territorio fuori dall’adolescenza. Non ci è dato sapere, alla fine delle sei stagioni, cosa ne è stato dei vari personaggi (almeno di quelli sopravvissuti). La settima stagione si pone come finestra d’eccezione, occasionalmente aperta verso tre tra i più celebri di tutta la serie: Effy, Cassie, Cook. Il risultato è a dir poco bizzarro. Qualora, nel 2013, fosse uscita la notizia di tre film per la TV, scritti e diretti dagli stessi autori di Skins, con l’utilizzo di molti attori già presenti in quel di Bristol, molto poco sarebbe cambiato. I tre protagonisti mantengono lo stesso nome, ma le vicende che li circondano sono radicalmente differenti. I legami con il passato sono ridicolmente ed esageratamente tagliati. Nelle vicende di Effy e Cook non si fa quasi mai riferimento al traumatico omicidio del loro compagno, così come Cassie liquiderà il suo legame con Sid in poche parole, senza neanche mai nominarlo. Storie fini a se stesse, che nulla aggiungono alla parziale conclusione della precedente sesta stagione.
Dimostrare il cambiamento e la crescita dei personaggi, in maniera così netta e discontinua, non è la giusta rappresentazione di un’evoluzione, quanto la semplice rappresentazione di un altro personaggio. Che poi le caratteristiche siano simili al precedente è dovuto anche, banalmente, alla faccia dell’attrice/attore. Da aggiungere poi come le vicende di Effy e Cook presentino ulteriori lancinanti tragedie, seppur in quello che è solo un film in due parti. Nel caso di Effy, addirittura, ne paga le conseguenze un personaggio della sua generazione seriale.
Nulla da dire, come al solito, sulla fattura scenica. Si conferma, tuttavia, la poca capacità di affrontare una scrittura lineare e fluida, utile a concedere allo spettatore riferimenti fissi, conscio di trovarsi sempre nello stesso universo narrativo, senza dover ogni volta doversi ambientare in un nuovo scenario.
Anche questi (tanti) difetti, tuttavia, non cancellano l’impronta che una serie come Skins ha lasciato nel bagaglio televisivo (tanto che vi è stato il solito, inutile tentativo di remake made in USA) e nell’immaginario adolescenziale della seconda metà degli anni duemila. La poca coerenza e la poca continuità sono state compensate da improvvisi momenti particolarmente ispirati che mai spingeranno a catalogare Skins tra le serie TV da buttare.

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Approda in RecenSerie nel tardo 2013 per giustificare la visione di uno spropositato numero di (inutili) serie iniziate a seguire senza criterio. Alla fine il motivo per cui recensisce è solo una sorta di mania del controllo. Continua a chiedersi se quando avrà una famiglia continuerà a occuparsi di questa pratica. Continua a chiedersi se avrà mai una famiglia occupandosi di questa pratica.
Gli piace Doctor Who.

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