PROLOGO
“…and we got lonely, Lord, but not today|’Cause we gonna wash away| We gonna wash away…”
(Wash Away – Joe Purdy)
Parlare di Lost significa mettere bocca su una delle serie tv più discusse, chiacchierate, criticate e al tempo stesso amate della storia della serialità. Sotto certi aspetti, per la sua impronta rivoluzionaria, Lost potrebbe essere considerato uno dei genitori che ha dato modo di formare le serie tv così come le intendiamo oggi. Questo un aspetto che si avrà modo di esporre ed analizzare con più calma in questo articolo che non si prefigge l’obiettivo di spiegare ogni dubbio o risolvere quesiti rimasti irrisolti, bensì portare alla luce i ricordi legati ad un viaggio esperienziale così come può essere intesa la visione di Lost.
Perché sì: Lost non può essere spiegato. Deve essere vissuto e conosciuto.
INTRODUZIONE [INDICE]
“C’era una volta un’isola. C’è chi afferma che fosse nel sud del Pacifico, ma non l’avreste trovata segnata su alcuna mappa. Nel corso degli anni molte persone sono state attirate sull’Isola, persone che avevano smarrito la propria strada e sé stesse.” (Lost 3×00 – I Sopravvissuti)
Lost venne originariamente mandato in onda il 22 settembre 2004 con uno dei pilot più costosi della storia della televisione, quaranta minuti confezionati dalla penna di Damon Lindelof e dalla camera di J.J. Abrams. Lo script iniziale del pilot prevedeva che Jack, interpretato però da Michael Keaton, dopo aver salvato buona parte degli altri passeggeri morisse sciaguratamente lasciando le redini dell’intera Isola nelle mani di Kate che avrebbe ricoperto da lì in avanti il ruolo di protagonista indiscussa. Complici le chiare potenzialità del personaggio di Jack ed il fatto che Keaton non voleva impegni a lungo termine, gli sceneggiatori rimisero mano all’intero lavoro per soddisfare anche le scelte del cast che in fase di selezione degli attori finì per aggiungere nuovi volti a quelli inizialmente pensati.
Il plot narrativo prevedeva che un aereo di linea, il volo Oceanic 815, partito da Sydney e diretto a Los Angeles, precipitasse su di un’isola apparentemente deserta. Partendo da questo punto, poi, la narrazione permise allo spettatore di entrare in sinergia con una vastità di personaggi non indifferente e soprattutto di carpire segreti ed altro ancora di quell’isola che sarebbe ben presto diventata mito e leggenda.
La serie, oltre a permettere il rilancio del canale ABC, entrò a far parte del costrutto sociale occidentale influenzando film, fumetti, videogiochi, musica, forte di una sceneggiatura in grado di assorbire elementi dalla storia, dalla mitologia, dalla religione, dalla scienza, dalla filosofia, dalla letteratura. Da semplice serie tv, Lost si apprestava a diventare, come appuntato nel precedente paragrafo, un viaggio esperienziale a tutto tondo in grado di calamitare l’attenzione di milioni di persone sparse per tutto il globo.
Lost si compone di sei stagioni per un numero complessivo di 121 episodi. La stagione meno consistente in termine di puntate è la quarta (14 episodi) a causa del celebre sciopero degli sceneggiatori della WGA che sembrò mettere in ginocchio la produzione televisiva degli anni 2007-2008 e che in parte contribuì all’indebolimento dal punto di vista della sceneggiatura della serie stessa. Oltre agli episodi canonici, vennero realizzati altri cortometraggi-mediometraggi utili ad approfondire determinati aspetti della storia. Tredici di questi sono presentati come puri e semplici speciali: episodi riepilogativi, utili a far raccapezzare lo spettatore relativamente al dove esattamente la narrazione si fosse fermata. Altre tredici clip compongono Lost: Missing Pieces. Ma il cortometraggio più importante, distribuito solo ad agosto 2010 all’interno del DVD presente nel cofanetto dell’ultima stagione, è quello del famigerato epilogo dal titolo “The New Man In Charge” dove l’ennesimo mini-segreto della Dharma viene svelato e dove Benjamin ed Hugo si premurano di andare a recuperare una vecchia conoscenza dello spettatore, Walt, per riportarlo sull’Isola insieme a loro.
“E così la storia prosegue: persone che hanno smarrito la strada, perso il senso della vita. Ma quest’Isola offre molte opportunità. Alcuni si rialzeranno, altri soccomberanno. E viene da chiedersi: chi di loro perderà la speranza? Chi sopravvivrà? E chi sono, veramente, i buoni?” (Lost 3×00 – I Sopravvissuti)
COSA HA RAPPRESENTATO E COSA RAPPRESENTA TUTT’ORA LOST? [INDICE]
“Quella di Lost è una narrazione complessa. […] Un testo che si fa leggere, analizzare e scomporre in più livelli, quasi fosse strutturato in più strati. Gli autori stessi hanno definito la serie tv come uno scavo archeologico in continuo approfondimento.” (Lost Moderno, Giuseppe Grossi)
Quante volte, ancora oggi, il nome di Lost viene avvicinato ad altre serie tv nel momento in cui queste ultime vengono presentate, a mezzo trailer, al grande pubblico? “Il successore di Lost” ha da sempre rappresentato un solo ed unico destino per qualsiasi tipo di prodotto: la morte per cancellazione. È scontato che il più delle volte citare Lost rappresenti marketing spicciolo, un puro e semplice espediente per poter sfruttare il blasonato marchio della serie di casa ABC. Ma il risultato è sempre stato negativo: creazione di alte aspettative; plot che si rivelava essere blando, scarno e ben lontano dal lavoro di Lindelof; delusione crescente nel pubblico.
Lost, quindi, dal canto suo ha rovinato il mondo delle serie tv: come detto, infatti, prodotti su prodotti hanno cercato di richiamare il colosso della ABC, citandolo in parte o partendo da una costola narrativa dello stesso. Ma il risultato è stato nauseabondo.
D’altra parte, Lost ha anche rivoluzionato il mondo seriale.
Un accostamento di affermazioni che fa dubitare della sanità mentale di chi scrive, probabilmente, ma che risulta perfettamente logico se ci si ferma a riflettere.
La serie con sceneggiatore Lindelof ha rivoluzionato in positivo il mondo della serialità permettendo ad una realtà fino a lì bloccata in determinati costrutti narrativi di cambiare, di adattarsi. Ed il suo successo planetario ha definitivamente abbattuto quel pensiero comune che vedeva il mondo televisivo come qualcosa di avulso e ben lontano dalla realtà cinematografica (anche Twin Peaks all’epoca aveva fatto il proprio dovere, ma la spallata “psicologica” è in parte anche di Lost). Lost ha rappresentato, quindi, il ponte perfetto per permettere ad una moltitudine di prodotti di uscire allo scoperto, di autodeterminarsi e di trovare luce. Ha dato maggiore fiducia in pitch che, forse, anni addietro avrebbero fatto capolino solo da un cestino di un ufficio. Il mondo seriale, per come lo conosciamo oggi, deve gran parte del suo successo a Lost, a Damon Lindelof e a Carlton Cuse.
Spesso e volentieri, in una conversazione tra amici o conoscenti, ci si ritrova a dover indicare la propria serie tv preferita. E Lost andrebbe giustamente non nominata. Non per limitazioni narrative o altro, ma perché Lost esula dal mondo seriale ed approda a quello di esperienza di vita.
“I don’t think you can have a conversation about television in the 21st Century without mentioning Lost.” (Daniel Dae Kim, interpreta Jin-Soo Kwon)
PRIMA STAGIONE: L’APPRODO (2004/2005 – 25 episodi – 93% su Rotten Tomatoes) [INDICE]
Un occhio che si apre.
Il risveglio di Jack ha rappresentato (e rappresenta) una delle figure più iconiche del mondo della serialità. Paragonabile forse, sempre parlando di pilot, al ritrovamento di Laura Palmer esanime; oppure al fugace incrocio di sguardi tra Jesse e Walter; o, tornando indietro nel tempo, al primo incontro tra Mulder e Scully: una fotografia indelebile destinata a segnare la storia della televisione.
E questa sensazione, forse, qualcuno nel lontano 2004 l’ha effettivamente provata, a ragione. È la stagione dell’approdo, dello sradicamento, del riadattamento ad una nuova realtà. Dopo un disastro aereo un gruppo di sopravvissuti si ritrova a dover fare i conti con un’isola (che presto diventerà l’Isola) disabitata (o almeno così si pensa).
La costruzione della prima stagione oggi verrebbe definita lenta: puntate suddivise 50:50 tra flashback di approfondimento di ogni singolo personaggio e prosieguo della narrazione sull’isola. I misteri iniziano già a presentarsi al pubblico, ma sono dilazionati: il messaggio della Rousseau (1×02); l’orso polare (1×02); “Adamo ed Eva” (1×06); il “non siamo soli” che inizia a serpeggiare dopo la scoperta di Ethan (1×09); e dulcis in fundo la botola (1×11).
Le vicende (passate e presenti) dei personaggi si intrecciano con la storia dell’Isola, personaggio attivo a tutti gli effetti dal momento che svariate volte verrà citata come ordinante, come giudice o altro ancora all’interno delle varie stagioni. L’Isola vive, sopravvive. L’isola è il nuovo paradigma in cui i losties si ritrovano a doversi immergere ed amalgamare per poter conoscere sé stessi, proprio come appuntato da Jack a Kate sul finire della terza puntata: “Non ha importanza Kate. Chi eravamo, quello che abbiamo fatto prima di precipitare. Ormai non… siamo tutti morti tre giorni fa. Dobbiamo ricominciare da capo.”
E così è: iniziano a formarsi delle fazioni (spiaggia e grotte), ma il vero punto fondamentale di questi sottogruppi tra i sopravvissuti è la disomogeneità e la semplicità con cui riescano a sfaldarsi. I gruppi si formano e si disgregano in maniera molto semplice a seguito di scelte/decisioni, non ci sono dei veri e propri clan (come The Walking Dead ci ha insegnato ad intravedere in situazioni al limite della sopravvivenza, per esempio). I gruppi variano, le alleanze sono effimere e momentanee, un vero e proprio relativismo di scena. Giuseppe Grossi, nel suo trattato “Lost Moderno – Lettura di una serie televisiva“, appunta nella maniera più corretta che Lost esula dalla pura e semplice etichettatura di genere, facendo collimare al suo interno le tipologie di serie più varie (drama, thriller, horror, sci-fi, romantico, a tratti comedy) e giunge a definirlo un sociological drama. Una definizione che, valutate le fine analisi dei personaggi, non può che risultare più che corretta.
Della prima stagione, spesso e volentieri, si tende a ricordare solamente la botola, elemento narrativo introdotto solamente sul finire dell’episodio 1×11, quando Boone e Locke la scoprono. Senza nulla togliere all’importanza che la botola ha rappresentato (non solo per la serie, ma per l’intera storia della televisione), andrebbe anche tenuta a mente la perfetta costruzione dei vari background narrativi dei singoli personaggi chiamati in causa: un’infanzia tribolata; rapporti conflittuali in famiglia; fantasmi personali che infestano loro la vita; ma, soprattutto, la necessità per chiunque di una nuova possibilità, di fare tabula rasa e ripartire. Un qualcosa a cui, si scoprirà solo più avanti nella serie, sarà proprio Jacob a pensarci vedendoli come candidati.
La stagione, come detto, si era aperta con l’occhio spaventato e sgomento di Jack, immerso nella sua solitudine in piena giungla. La conclusione della stagione è sì racchiusa sempre in uno sguardo, ma questa volta comunitario: in scena sono quelli di John e Jack che scrutano incuriositi il tetro cunicolo che porta all’interno della botola di cui è stata divelta l’entrata solo alcuni istanti prima; dall’altra parte dello schermo lo sguardo è di quasi 21 milioni di spettatori (che hanno seguito il finale in diretta il 25 maggio 2005) che, atterriti, riflettono il proprio sguardo in quello dei loro beniamini.
La paura c’è, ma la curiosità è maggiore. Ecco, quindi, che Lost regala IL cliffhanger (a quel momento) fino ad allora strumento utilizzato, sì, ma mai in modo così sapiente e d’effetto.
“Sono già sei giorni, e aspettiamo ancora. Aspettiamo che qualcuno venga. Ma se non venissero? Basta aspettare: ora dobbiamo cominciare ad affrontare la situazione. È morta una donna stamattina, mentre stava nuotando. Lui ha cercato di salvarla, e ora volete crocifiggerlo? Questa cosa non funziona. Se ognuno pensa a sé, qui va tutto a rotoli. È il momento di organizzarci, dobbiamo capire come sopravvivere qui. Ho trovato l’acqua, acqua dolce in quella valle. Ci porterò un gruppo quando sorge il sole. Se qualcuno non vuole venire, trovi un altro modo per rendersi utile. Una settimana fa eravamo estranei. Ma siamo tutti qui ora, e Dio solo sa per quanto ancora. Ma se non riusciamo a vivere insieme, moriremo da soli.” (Lost 1×05 – Il Coniglio Bianco)
SECONDA STAGIONE: LORO, NOI, GLI ALTRI (2005/2006 – 24 episodi – 100% su Rotten Tomatoes) [INDICE]
“Questa è la NOSTRA Isola.”
Come è possibile ripartire dal cliffhanger per eccellenza riuscendo a farlo in maniera tale da non lasciare scontenti i propri fan? Con una delle mosse Kansas City meglio riuscite della storia della televisione, essendo in grado, al contempo, di introdurre una nuova sottotrama ed un personaggio con tutti i crismi per diventare fondamentale.
Il bip di allarme di un monitor riecheggia in una stanza (o almeno così sembra). Qualcosa viene digitato su una tastiera, poi il silenzio e, successivamente, parte Make Your Own Kind Of Music dei The Mamas & The Papas. Un piccolo salto indietro nel tempo per ritornare, dopo pochi minuti, al preciso istante in cui la prima stagione aveva trovato conclusione, con l’esplosione della chiusura d’emergenza della botola. Il secondo ciclo narrativo di Lost rappresenta la consacrazione del prodotto nonché vero spunto di partenza per la corposa mitologia (con misteri svelati o introdotti), elemento centrale sempre e comunque da qui in avanti. È la stagione del noi, degli altri e del sempre attuale scontro con chi si reputa diverso.
Oltre a Desmond, protagonista dell’incipit che ribalta la prospettiva della narrazione, almeno per un momento, la seconda stagione presenta i sopravvissuti della sezione di coda dell’aereo e le loro vicissitudini (2×07). Ma è anche la stagione del famoso “questa è la nostra isola” (2×11); di Henry Gale (2×14); dei numeri (2×03); della prima menzione riguardo Charles Widmore (2×23); e del fatidico “noi siamo i buoni, Michael” (2×24). È la stagione dei misteri e dei numeri, oltre del già citato conflitto tra noi e “gli Altri”.
I personaggi introdotti (sia membri del volo Oceanic 815, sia gli Altri) permettono agli sceneggiatori di affinare ulteriormente il lavoro relativo ai vari background, riuscendo a far coincidere le storie di (quasi) tutti i character in maniera lineare e concreta. Un elemento che, purtroppo, avrà delle grosse difficoltà nelle stagioni successive, in particolar modo con l’introduzione del gruppo della nave cargo. Il personaggio forse più interessante introdotto, utile a fare da contraltare morale e spirituale ad un John Locke sempre più vicino alla deriva (complice i dialoghi subdoli e manipolatori di Henry Gale a.k.a. Benjamin Linus) è sicuramente Mr. Eko, criminale d’alto livello riscopertosi religioso dopo la morte/scomparsa del fratello Yemi. Mr. Eko porta nuova energia al filone narrativo riguardante l’annosa lotta fede vs ragione, ritrovandosi, in conclusione di stagione, a cercare di far ragionare un John Locke in preda ad un vero e proprio delirio di onnipotenza. Quest’ultimo si concluderà con un esterrefatto “mi sono sbagliato” sussurrato proprio da John mentre la botola sta per implodere a causa della carica di elettromagnetismo non liberata dal consueto inserimento del codice (4 8 15 16 23 42, i sei numeri maledetti).
Il finale è concitato, una costruzione opposta rispetto all’apertura di questa stagione (presentata all’inizio del paragrafo). Desmond si rende conto dell’errore commesso da parte sua il giorno della caduta del volo Oceanic 815 sull’Isola: il suo ritardo nel premere il pulsante porterà al “collasso di sistema” che farà precipitare l’aereo. Le fazioni, sempre e comunque solo momentanee, si sfaldano nuovamente ma Locke vuole a tutti i costi vedere nel profondo della tana del bianconiglio. La situazione verrà salvata da Desmond che, girando una chiave di sicurezza, farà letteralmente brillare l’Isola rivelandola al mondo esterno giusto il tempo necessario perché venga notata dalle persone che la cercavano.
Col senno di poi una conclusione così imbastita fa storcere il naso: una chiave per salvare, letteralmente, il mondo e la situazione? Ma all’epoca, soprattutto considerato il contesto del racconto, appariva una delle conclusioni più logiche e “magiche” che si potesse richiedere. Una giustificazione che difficilmente si riuscirà a palesare nella mente dello spettatore quando la famigerata ruota della stazione Orchidea farà capolino nel racconto (quarta stagione).
La seconda stagione è anche la fase introduttiva del progetto Dharma con i suoi video orientamento con tanto di pellicole tagliate e delle varie stazioni sparse sull’Isola. Ma anche i numeri (la sequenza tanto amata da Hurley) si ritagliano il proprio angolo di mistero tra la sequela di enigmi che questo ciclo di episodi cerca (e riesce) a portare avanti senza indebolimenti veri e propri.
C’è un elemento preciso di cui si è omesso sia nel paragrafo della prima stagione, sia in questo, un dente traballante che forse avrebbe dovuto far ricredere gli spettatori sulla perfettibilità di questo show: Walt. Presentato come un personaggio carico di aspettative e potenzialità, rapito dagli Altri nel finale della prima stagione e riapparso solo nell’episodio 2×22, finirà con l’essere un cul de sac narrativo a tutti gli effetti, non riuscendo a sfociare in nessuna direzione e fallendo miseramente la sua missione di “predestinato”.
Nota a margine: c’è da precisare, tuttavia, che qualche risposta Lost cerca di concederla sia sulla sua figura, sia sul dubbioso arrivo di provviste sull’Isola avvenuto nell’episodio 2×17.
Nell’episodio speciale “The New Man In Charge” (già citato in precedenza), Ben prima libera dal proprio incarico (spedire cibo sull’Isola) due membri del progetto Dharma, successivamente, con l’aiuto di Hurley, andrà a recuperare proprio Walt per riportarlo sull’Isola, lì dove sarebbe dovuto rimanere.
Una conclusione sufficiente per questa sotto trama? Sicuramente no, ma a volte bisogna sapersi anche accontentare, purtroppo.
La seconda stagione sotto certi punti di vista rappresenta, con il senno di poi, lo zenit narrativo di Lost. Ma non ne rappresenta l’apice vero e proprio, anche se la fase di declino, o per meglio dire di dubbie scelte narrative, si avvicina a grandi passi senza guardare in faccia nessuno.
TERZA STAGIONE: “WE HAVE TO GO BACK!” (2006/2007 – 23 episodi – 83% su Rotten Tomatoes) [INDICE]
“A chiunque possa leggerlo. Siamo i superstiti del volo Oceanic 815. Sopravviviamo su quest’isola da 80 giorni. Eravamo in volo da 6 ore quando il pilota ha detto che eravamo fuori rotta ed ha virato verso le Fiji. Ci siamo imbattuti in una turbolenza e siamo precipitati. Siamo rimasti ad aspettare qui tutto questo tempo in attesa di soccorsi che non sono arrivati. Non sappiamo dove ci troviamo. Sappiamo soltanto che non ci avete rintracciati. Abbiamo fatto del nostro meglio per vivere qui. Alcuni si sono rassegnati all’idea che non ce ne andremo mai. Non tutti sono sopravvissuti dopo il disastro, ma c’è anche nuova vita e con essa la speranza. Siamo vivi. Per favore, non abbandonateci.” (Lost 3×12 – Per Via Aerea)
Anche la terza stagione decide di aprire le danze con un abilissimo cambio di prospettiva. Il contesto della narrazione è sempre lo stesso (l’Isola) ed il momento sotto la lente di ingrandimento è sempre lo stesso (giorno della caduta del volo Oceanic 815). È il dove a rendere tutto più misterioso ed incredibilmente ad effetto: il villaggio degli Altri, nascosto ad occhi indiscreti dalla fitta vegetazione. Un piccolo angolo di paradiso che, se Lost dovesse iniziare a raccontare ora le proprie gesta, verrebbe visto in altro modo dallo spettatore. Ma è proprio questo il contraltare che viene mostrato in questa terza stagione: dopo aver introdotto gli Altri quasi fossero indigeni, violenti e pericolosi individui, Lost li mostra per quello che in realtà sono, ossia persone comuni. Ecco quindi il club del libro, i biscotti, i sorrisi ed un modo di vivere ben lontano dal concetto di primitività che veniva solitamente a loro avvicinato. Gli Altri non sono poi così diversi da noi. Follia. E lo spettatore impazzisce.
Anche il balzo tecnologico è evidenziato dall’opening: niente più giradischi, ma ecco fare capolino un lettore cd da cui parte Petula Clark con Downtown.
È la stagione di approfondimento degli Altri, come detto, del loro modo di vivere e soprattutto, trattandosi di Lost, del loro passato. Juliet e Benjamin sono i personaggi che più di tutti ricevono l’attenzione che meritano; la Dharma viene finalmente un minimo approfondita con la narrazione della Purga e della loro totale debacle a guadagno degli Altri.
Memori di quanto appuntato in conclusione del precedente paragrafo, però, in cui si sottolineava come la seconda stagione avesse rappresentato lo zenit narrativo, occorre far presente come nella terza diversi flashback riguardanti alcuni dei personaggi già ampiamente analizzati (si parla dei losties, quindi) risultino stantii, pedanti e soprattutto pesanti, rendendo alcuni episodi difficili da digerire.
Anche la sfortuna ha dal canto suo deciso di mettere becco all’interno di Lost. L’attore Adewale Akinnuoye-Agbaje (Mr. Eko) manifestò la volontà di lasciare lo show a seguito dell’improvvisa scomparsa di entrambi i genitori per potersi occupare di una produzione cinematografica a casa sua, a Londra. Gli sceneggiatori dovettero mettere mano al loro lavoro, sradicare il personaggio di Mr Eko (da poco trapiantato nella storia ed avvicinato al carismatico Locke) e decretarne la morte, spesso messa in dubbio, in quanto a genuinità, da buona parte del pubblico.
Ma anche gli sceneggiatori decisero di metterci del proprio. Si pensi per esempio a due degli episodi più nauseanti dell’intera serie: l’episodio 3×09, “Stranger In A Strange Land” riguardante la storia del tatuaggio di Jack (utile a sottolineare il ruolo di leader del dottore, quasi si sentisse bisogno di un episodio a sé per capirlo); l’episodio 3×14, “Exposè”, la nascita e morte di Nikki e Paulo, i due personaggi più inutili e di dubbio gusto della storia stessa di Lost.
A questo punto, vedendo la serie con il senno di poi, si ha la certezza che la barca iniziava a navigare a vista sotto certi aspetti. O, peggio ancora, sembrava voler tirare i remi in barca e lasciarsi traghettare dalle onde della corrente.
Ma, come spesso accade, è il finale di stagione a decretarne il reale successo. Ecco quindi che Lost decide di cambiare marcia: i flashback diventano flashforward, lo spettatore lo percepisce solo negli ultimi minuti, ne rimane sbigottito e l’unica cosa che sentirà nella sua mente nei successivi giorni sarà il riecheggiare di quel “We have to go back!” diventato non solo simbolo della serie, ma forse della serialità. Quella bella, quella che appassiona. Quella di cui Lost ancora faceva parte.
Apertura e chiusura, come sempre, di indecifrabile bellezza. Nel mezzo? Ancora misteri, sì, ma anche piccole rivelazioni e nuovi personaggi introdotti: Jacob ed il suo possibile ruolo di “mago di Oz” (3×20); Naomi e la nave cargo (3×17); la capanna di Jacob; le visioni di Desmond (3×04); l’uomo di Tallahassee (3×13); il continuo approfondimento dei legami tra i personaggi (Jack e Claire oppure Sawyer e Locke); le greatest hits di Charlie (3×21). Sì, proprio Charlie che con il suo sacrificio e la scritta “Not Penny’s Boat” diventerà l’ennesimo ricordo di una serie, di un mondo seriale, che funzionava (quasi) alla perfezione.
“Sto volando parecchio. Sì, quella golden card che ci hanno dato, la sto usando. Ogni venerdì sera, volo da Los Angeles a… Tokyo, o Singapore… Sydney. E poi scendo dall’aereo e… bevo qualcosa e torno a casa. Perché voglio che precipiti, Kate. Non mi importa di tutte le altre persone a bordo. Ad ogni minimo sobbalzo che sento, a ogni turbolenza, insomma io chiudo gli occhi e prego di poter tornare indietro. Sono stanco di mentire! Ci siamo sbagliati. Non era destino che ce ne andassimo. Dobbiamo tornare indietro, Kate. Dobbiamo tornare indietro!” (Lost 3×23 – Attraverso Lo Specchio Pt. 2)
QUARTA STAGIONE: “LOOK HOW THEY MASSACRED MY BOY” (2008 – 14 episodi – 93% su Rotten Tomatoes) [INDICE]
“Abbiamo mentito. Abbiamo mentito tutti… sull’isola e su come è andata dopo l’incidente aereo. […]
Va bene. Sì, noi siamo precipitati. Però su questa isola assurda… e aspettavamo i soccorsi, ma i soccorsi non arrivavano. E poi c’era un mostro di fumo e tanta altra gente sull’Isola, li chiamavamo gli Altri e hanno iniziato ad attaccarci. Abbiamo trovato delle stazioni e c’era un pulsante da premere ogni 108 minuti o… oppure… Beh, non mi è mai stato molto chiaro ma… Gli Altri non c’entravano niente con le stazioni. Erano di quelli del progetto Dharma. Loro erano morti, gli Altri li avevano uccisi e ora cercavano di uccidere noi. E poi ci siamo alleati con gli Altri perché delle persone peggiori stavano arrivando su una nave mandata lì dal padre della fidanzata di Desmond per ucciderci. Così gli abbiamo rubato l’elicottero per raggiungere la nave. Ma è saltata in aria e non potevamo tornare all’Isola perché era scomparsa. Allora abbiamo galleggiato sull’Oceano dopo essere caduti in mare fino a che una barca non ci ha presi a bordo. Lì eravamo rimasti in sei. Quella parte era vera. Ma tutti quelli… ma le altre persone che erano sull’aereo, sono ancora sull’Isola.” (Hugo in Lost 5×02 – La Grande Menzogna)
La quarta stagione rappresenta, a detta di molti serial addicted, lo spartiacque tra ciò che ha reso Lost uno dei drama di maggiore successo nella storia della televisione e ciò che lo condannò a mero ricordo addolorato per buona parte del suo pubblico. È la stagione della famigerata ruota (4×13), della telefonata tra Desmond e Penny (4×05), del primo accenno al Tempio, altro tasto dolente della serie (4×08) ma è anche la stagione dello sciopero degli sceneggiatori indetto dal Writers Guild Of America, che terrà banco fino a febbraio 2008 costringendo la produzione a ridurre il numero degli episodi (invece di 16 saranno 14 con un finale doppio). È impossibile poter determinare quale tra i predetti fattori abbia inciso in maniera maggiore sulla mal riuscita lavorazione di questa stagione, ciò nonostante anche questo quarto ciclo fa parte della storia di Lost ed è obbligatorio parlarne.
Andando di pari passo con quanto messo in mostra nel precedente season finale, anche questo quarto ciclo decide di appoggiarsi ai flashforward come mezzo narrativo principale, alternandolo con la narrazione odierna sull’Isola. Fanno eccezione alcuni episodi in cui la narrazione decide di prendere in esame diversi aspetti, uscendo quindi dalla canonicità a cui Lost aveva (ormai dal 2004) abituato il proprio pubblico. Episodi come “Confirmed Dead” (4×02), in cui vengono presentati i personaggi di Charlotte, Daniel, Miles e Frank, oppure “The Constant” (4×05), interamente costruito attorno al personaggio di Desmond, sono esempi di queste eccezioni.
Altro elemento di cui occorre far menzione è la diversità qualitativa tra flashback (in grado di tenere banco per l’intero episodio e di coinvolgere lo spettatore) e flashforward (costruiti quasi svogliatamente e basati in tutto e per tutto con l’unico scopo di creare colpi di scena a ripetizione). Con flashforward scostanti, un manipolo di personaggi secondari interessanti ma fin troppo caricaturali per buona parte della stagione (Daniel Faraday è l’occasione sprecata) occorreva giocarsi il tutto per tutto sulla sceneggiatura relativa alla vita odierna sull’Isola. Il risultato? Di dubbio gusto. Il ritorno dei “6 della Oceanic” è sontuoso sia registicamente, sia musicalmente parlando (Giacchino si riconferma, come se ce ne fosse bisogno, maestro indiscusso). Ma tutto il resto risulta inguardabile: la lotta tra Benjamin e Widmore, col senno di poi, assume connotazioni quasi pittoresche e prive di significato; Claire e la sua enigmatica scomparsa nella foresta; Richard che viene forzatamente inserito nella vita passata di John Locke (4×11); quel fatidico “vuole che spostiamo l’Isola” (sempre 4×11) e, di conseguenza, quella ruota piantata nel muro della stazione Orchidea che tanto puzzava di salto dello squalo e che oggi si può tranquillamente vedere come il punto più basso della narrazione. Non tanto per la trovata inusuale dal semplice punto di vista della sceneggiatura (anche perché non avrebbe senso visto che si sta parlando di una serie tv che ha come “mostro” un ammasso gassoso di colore nero), quanto più per la totale assenza di risposte (valide, sia chiaro) che questo espediente narrativo riserverà al proprio pubblico. Ci sarà qualche accenno nella sesta (“Across The Sea”, volendo fare un piccolo balzo avanti nel tempo), ma nulla di effettivamente convincente.
La quarta stagione di Lost iniziò male e terminò forse anche peggio: un ectoplasma narrativo di cui, consapevoli degli avvenimenti successivi, risulta difficile comprenderne la reale utilità. La narrazione del ritorno a casa di Jack, Kate, Sayid, Hugo, Sun ed Aaron non basta minimamente per salvare un ciclo narrativo che sembra deambulare a fatica.
Una stagione che non lascia troppi ricordi al proprio pubblico ma, anzi, per la prima volta lo lascia con molti più rammarichi ed un senso di desolazione decisamente frustrante.
QUINTA STAGIONE: UN NUOVO INIZIO (2009 – 17 episodi – 90% su Rotten Tomatoes) [INDICE]
“Jack, vorrei che mi avessi creduto. – JL“
La quinta stagione rappresenta, a conti fatti, la ricerca di una rinascita narrativa sotto molti punti di vista. Nuovi edifici e nuove costruzioni prendono piede in Lost; nuovi termini iniziano a circolare tra i vari personaggi (incidente, candidati, bomba, la fatidica domanda di Ilana “cosa giace all’ombra della Statua?”); e goffi tentativi di nuove storyline amorose (Juliet e James). È la stagione del ritorno di John Locke (anche se si scoprirà solo nel finale non essere veramente lui), ma è anche quella che distrugge definitivamente il character di Benjamin Linus ormai diventato puro e semplice burattino (da burattinaio astuto) nelle mani del primo personaggio principale che gli ruota attorno.
La necessità di un nuovo inizio, avvenuto contestualmente al ritorno dei sei della Oceanic con il volo Ajira (episodio 5×06 “316”), sopraggiunge dopo la ricomparsa del punto più basso della sceneggiatura, quella fantomatica ruota nel muro così difficile da digerire e comprendere, ma così volgarmente utile a risolvere una questione (quella temporale) che stava lentamente diventando opprimente (oltre che mortale per i personaggi) per l’intera serie. È da evidenziare, tuttavia, che avere l’Isola “sganciata dal tempo” (come ha ben precisato Faraday) rappresentò per la serie un valido strumento per fare un tour glorioso attorno ad alcuni dei momenti cruciali delle precedenti stagioni (il parto di Claire, lo sfogo di Locke contro la botola) oltre a momenti solo oralmente riportati (l’approdo di Danielle sull’Isola, la statua intatta).
Dopo questo tour, però, ecco il ritorno alle origini: l’occhio di Jack che si apre, circondato da una distesa di alberi, la percezione di abbandono e solitudine. Il gruppo si è finalmente riunito sull’Isola, sia per trarre in salvo gli ex compagni abbandonati oltre tre anni prima, sia per cercare un nuovo scopo, un nuovo destino. Ed è quello che gli sceneggiatori cercano di far proferire in ogni modo e/o forma al povero Jack, personaggio a cui è stato dato l’ingrato compito di vestire i panni (morali e di dialogo) anche dell’ormai scomparso John Locke. Forse quel biglietto lasciato da Jeremy Bentham, quel famoso “vorrei mi avessi creduto” ha finalmente strappato dalla quotidianità il povero Jack, catapultandolo in una realtà più nitida dove il destino e l’Isola si serbano il compito di poter decidere di ogni singolo individuo con cui sono entrati in contatto.
In contatto, sì. Perché accantonate le puntate personaggio-centriche, superflue e poco accattivanti durante questa stagione (ormai rimane ben poco da raccontare), Lost ha deciso bene di mostrare il contatto tra l’Isola ed i suoi protagonisti (quelli che scopriremo essere Candidati). Come può l’Isola, struttura inanimata, entrare in contatto con una persona vera e propria? Gli sceneggiatori rispondono a questo quesito introducendo (e rispondendo ad alcune importanti domande) il capitolo fondamentale della mitologia di Lost: Jacob, una figura già più volte nominata all’interno della serie e di cui spesso si era dubitata l’esistenza.
È da sottolineare come, fatta eccezione per tutto ciò che ruota attorno a Jacob (in sintesi, quindi, gli ultimi due episodi della stagione), la mitologia in questa quinta stagione venga essenzialmente abbozzata, presentata con estrema lentezza, quasi si fosse in attesa del vero gancio destro per poter tramortire lo spettatore. Gancio che, a conti fatti, arriverà (con i predetti ultimi due episodi), ma risulta abbastanza uno spreco di tempo se si osserva come nei precedenti quindici veramente poco si era detto: il tempio appare solamente per pochi minuti nel flash che coinvolge Jin con la spedizione francese; del progetto Dharma viene presentato tutto ciò che già si era detto con l’unica differenza che non sono più racconti ma verità tangibili, vissute dagli ex losties; la lotta tra Widmore e Linus viene messa completamente da parte (dimostrando a tutti gli effetti come fosse un mero tentativo di prendere tempo durante la precedente stagione).
Lost necessitava di un nuovo inizio. Perché non ripartire da capo, quindi, ritornando ad una dicotomia a metà tra religione e filosofia sulle cui fondamenta tantissime pellicole (e prodotti televisivi) già si erano basati? La lotta tra il bene ed il male; tra bianco e nero; tra quella luce e quell’oscurità che tanto care sembravano essere a Locke durante la sua spiegazione del backgammon a Walt nei primissimi momenti di Lost.
Tutto riporta qui: bene e male, luci ed ombre. E se delle ombre qualche accenno lo spettatore lo aveva già ricevuto (il mostro di Fumo), della luce mancava ancora una personificazione, un personaggio tangibile al quale rifarsi: Jacob.
L’enigmatica figura portata in scena da Mark Pellegrino viene mostrata nei momenti più importanti di ogni singolo personaggio: James alle prese con la lettera da scrivere al famigerato Sawyer; Jack dopo il suo primissimo intervento, quando ancora cercava di ottenere l’approvazione del padre; Jin e Sun durante il loro matrimonio; Sayid nel preciso istante in cui l’amore della sua vita gli viene strappato via; Locke subito dopo l’incidente che gli causerà la paralisi. Fanno eccezione i personaggi di Kate ed Hugo: Jacob non li incontra nei loro momenti di vita maggiormente carichi di dolore o di importanza. Un elemento che fa storcere leggermente il naso per questo trattamento diversificato.
La quinta stagione rappresenta oggi, secondo molti (ed ingiustamente, dimenticandosi quanto di buono venga mostrato), il secondo capitolo (iniziato con la quarta stagione) della parte negativa di Lost: un percorso martoriato dalla sconclusionatezza della narrazione su più piani temporali e dall’incapacità di raccapezzarsi una volta stabilito il punto di approdo (il ritorno di Jack e compagnia sull’Isola). Fa da contraltare un progetto Dharma in grande spolvero e mostrato, finalmente, allo spettatore. Ma forse una stagione totalmente incentrata sulla Dharma appare decisamente eccessiva. Si poteva fare decisamente meglio.
L’episodio finale si chiude con la scritta LOST su campo bianco per la prima volta dall’inizio dello show (solitamente la scritta compariva in campo nero). È la fantomatica luce di chi, morto, sta per andare oltre?
Jacob: “Immagina che questo vino sia ciò che tu chiami inferno. È conosciuto anche con molti altri nomi come male, malvagità, oscurità. Ed eccolo qua, che si agita nella bottiglia senza poter uscire perché se lo facesse si diffonderebbe. Il tappo è quest’Isola ed è l’unica cosa che tiene l’oscurità nel posto che le spetta. L’uomo che ti ha detto di uccidermi crede che tutti siano corruttibili perché è nella natura umana peccare. Io vi porto sull’isola per dimostrargli che ha torto e quando uno arriva qui il suo passato con conta più.”
Richard: “Prima di noi avevi portato altre persone?”
Jacob: “Si, molte…”
Richard: “Che fine hanno fatto?”
Jacob: “Sono morte.”
Richard: “Se le hai portate tu qui perché non le hai aiutate?”
Jacob: “Perché volevo che se la cavassero da sole, che imparassero a distinguere il bene dal male senza i miei suggerimenti. Tutto perde significato, se sono io a muovere i fili.”
SESTA STAGIONE: LA CHIUSURA (2010 – 18 episodi- 82% su Rotten Tomatoes) [INDICE]
“Questa storia comincia il 22 Settembre 2004 a Sidney, in Australia, quando 324 persone si imbarcano su un volo per Los Angeles. Come ogni volo di quel giorno, anche questo è composto da sconosciuti. Tra loro ci sono: un medico e una ricercata, un soldato e una rockstar, un truffatore e uno che ha vinto alla lotteria, una coppia in crisi, una futura ragazza madre e un uomo che ha perduto la fede.
Mentre il volo Oceanic 815 vola alto sopra l’oceano questo gruppo di sconosciuti sta per ritrovarsi insieme su un’isola misteriosa, lontana da tutto. Per i membri del gruppo inizia un viaggio che non avrebbero mai potuto immaginare; si ameranno e si perderanno, lotteranno e moriranno. E dopo 108 giorni 6 di loro saranno tratti in salvo.
Ma l’isola svanisce proiettando gli amici rimasti lì in viaggio attraverso il tempo. Sono passati tre anni e a coloro che sono tornati a casa si chiede di fare ritorno per annullare il loro passato, per mutare la loro sorte, per cambiare il loro destino.
[…]
I più sono convinti che quel che è fatto, è fatto. Il destino non si può cambiare, ogni sforzo è vano. E coloro che osano sfidare il destino vanno sempre incontro a una delusione. Perché il destino ha il vizio di decidere il proprio corso. Ma prima di cedere al volere del destino è forse il caso di considerare la forza dell’animo umano e la forza che sprigiona dal proprio libero arbitrio.”
(Lost 6×00 – Final Chapter)
La stagione conclusiva si presenta ricolma di ulteriori quesiti, aspettative e (solo in parte) risposte agli annosi interrogativi che questa serie è stata in grado di portarsi dietro per oltre sei anni.
Si è arrivati all’ultimo sprint e la narrazione decide di fare un ulteriore balzo in avanti e di spingersi ben oltre la famigerata ruota che tra quarta e quinta stagione ha rappresentato forse uno dei punti più bassi di Lost. Niente più flashback, niente più flashforward: Lost introduce dei flashsideways facendo credere, almeno nei primi episodi, che la sesta stagione porti avanti due differenti tipi di storie. Da una parte l’Isola e l’inutile (o fondamentale?) sacrificio di Juliet per far esplodere la bomba nel finale della quinta stagione; dall’altra il volo Oceanic 815 e tutti i suoi passeggeri che mettono piede a terra sulle dolci note di LAX.
Ma alcuni elementi iniziano fin da subito a non combaciare (John ed Helen, oppure Jack con un figlio) e subito si realizza che la “realtà alternativa” prevede il fatto che l’Isola non sia mai stata artefice di alcun tipo di influenza sulla vita (nella sua totalità) dei personaggi della serie. Nei primissimi minuti di “LA X part.1” la si può scorgere sul fondo dell’oceano, infatti.
Una stagione altamente criticata più per il finale (che non sarà sede di dibattito ora, ma per il quale è previsto un paragrafo a parte) che per elementi realmente degni di aspre volgarità narrative. Si fa ovviamente riferimento all’intera sezione riguardante il Tempio (citato per la prima volta nell’episodio 4×08 da Benjamin), atteso come possibile luogo di importanti sviluppi (sia a livello materiale, sia a livello psicologico/morale) per l’intera serie e invece abbandonato nella sua più totale inutilità. Anche i dialoghi, spesso e volentieri vero punto cardine dello show, si riducono ad essere meri riempitivi svuotati del proprio vero valore. I personaggi, quindi, debilitati dal lato dialoghi annaspano faticosamente.
Jack sa di essere tornato per qualche motivo e passa mezza stagione ad essere triste per Juliet e l’altra metà ad autoconvincersi che “è questo il motivo per cui sono tornato, per cui sono qui”.
Sawyer non pervenuto: psicologicamente in lutto per tutta la stagione e attivamente coinvolto in un ruolo di spionaggio che non gli si addice minimamente.
Sayid morto dentro, privato di qualsiasi tipo di emozione: avrebbe fatto piacere fosse stato analizzato questo aspetto, ma produttori e sceneggiatori hanno preferito stendere un banalissimo velo su l’intera faccenda della sua resurrezione.
Kate assente.
Jin e Sun che si rincorrono da una parte all’altra dell’Isola, sballottati dal personaggio di turno che ripete loro “so come farti tornare da tuo marito/tua moglie”. E quando si riuniscono muoiono nella maniera più infida e tragica dai tempi di Charlie.
Hugo fa da collante tra tutti i personaggi e da messaggero di Jacob.
Locke in versione Man In Black (MIB), a.k.a. il Mostro di Fumo.
Ricompare Claire, giusto in tempo per poter essere tratta in salvo dalla comitiva di Jack e quindi fare ritorno sulla terra ferma, ricongiungendosi con Aaron.
La stagione, composta da 18 episodi, è formata da una corposa sequenza di puntate incentrate sugli avvenimenti legati al Tempio (e quindi al personaggio di Dogen), un luogo, come detto poco sopra in questo paragrafo, completamente abbandonato a sé stesso: rappresenta un rifugio per gli Altri dal Fumo Nero, ma bastano una manciata di episodi perché venga completamente espugnato e torni ad essere lasciato nel dimenticatoio. Perdita di tempo o pura e semplice mancanza di idee del comparto di sceneggiatura? Difficile a dirsi.
Parallelamente a tutto questo, però, Lost decide di chiudere il giro e di tornare ai propri albori: tornano gli episodi personaggio-centrici, questa volta incentrati nella realtà dei flashsideway. Una boccata d’aria fresca per una storia altrimenti bloccata tra le mura ammuffite di un Tempio che, non si sa esattamente come, non è mai stato nemmeno per sbaglio avvicinato per oltre sei stagioni nei lunghi pellegrinaggi attraverso la fitta foresta dell’Isola.
La stagione cerca di fare definitivamente luce anche su diversi misteri (Richard, Jacob, il Fumo Nero) ed a conti fatti questi rappresentano i macro-quesiti ancora rimasti in piedi: la Dharma ha avuto modo e tempo per un approfondimento nelle passate stagioni, quindi appare corretto dare spazio alla vera mitologia, agli albori dell’Isola.
“Ab Aeterno” e “Across The Sea” sono due episodi densi di significato, peso e importanza all’interno non solo della stagione, ma della serie stessa. “Ab Aeterno”, episodio dedicato al tumultuoso passato di Richard, sposa romanticismo e drama in un connubio perfetto di rara bellezza, intensità e vigore scenico.
Il romanticismo non è solo in scena ma è anche tra Lost e lo spettatore: “Ab Aeterno” è la dichiarazione d’amore eterna che la serie fa verso lo spettatore che anela affannosamente in ricerca di verità, di informazioni. E Lost gliene concede quasi un’ora. Un’ora di approfondimento sulla origini di Richard, sulla Black Rock e sul mitologico scontro tra Bene e Male di cui tutti, prima o poi, diventano pedine.
Ma non è l’unico episodio che maschera il proprio sentimentalismo dietro i violini ed il piano di Giacchino: “The Candidate” e “The End”, con il proprio carico di morte, dolore e disperazione rappresentano altri due episodi degni di nota da questo punto di vista.
“Across The Sea” si sposta dal puro e semplice romanticismo attestandosi a quello che può essere un vero e proprio “spiegone”: chi sono Jacob e l’Uomo in Nero? E perché è un Mostro di Fumo? Le risposte sono servite con il contagocce, forse solo abbozzate. Ma è nella natura di Lost rispondere a delle domande con altre domande. Ecco quindi la fonte di Luce, la Madre ed il famigerato “tocco” di chi è a capo della protezione dell’Isola. Lost si diverte per un’ultima volta e decide di lasciare molte interpretazioni in mano allo spettatore.
Toccherà al pubblico, infatti, cercare di venire a capo di alcuni di questi misteri, perché esattamente come la vetrata della chiesa in cui si trova la bara di Christian, Lost rimane aperto alle più svariate interpretazioni. Con alcuni punti fermi ribaditi candidamente da Christian e che spesso e volentieri molte persone sembrano voler ignorare bellamente.
È il momento del finale, chiusura del cerchio iniziato quel fatidico 22 settembre 2004. Una chiusura non perfetta, ma perfettibile sicuramente, che non può lasciare in alcun modo impassibile il pubblico.
Nota a margine: il rumore che si sente tra uno stacco e l’altro (tra realtà dell’Isola e flashsideway), altro non è che il rumore del motore dell’aereo che sorvola Jack e che sta, in maniera definitiva, lasciando l’Isola. E con quell’aereo se ne sta per andare uno degli show più controversi, magnetici e romantici (dal punto di vista seriale e non) che la storia della televisione abbia mai conosciuto e che forse conoscerà.
“You close the book and you don’t want the book to came to an end. But you close the book and go ‘God, it was great’.” (Terry O’Quinn, interpreta John Locke)
LOST 6×17 – 6×18 – THE END [INDICE]
Il finale di Lost, così come tutta la serie in realtà se si tiene in considerazione quanto esposto nei precedenti paragrafi, è uno di quelli più chiacchierati, discussi, controversi e in grado di spaccare a metà il giudizio del pubblico. Una cosa voluta oppure un inconsapevole risultato? Difficile da dire, tuttavia l’intera sesta stagione ed il suo essere costruita attorno ad un falso what if ha reso forse ancora più alte le aspettative per l’ultimo, fatidico, episodio. Oltre un’ora e quaranta per cercare di dare il giusto saluto ad una delle serie in grado di riscrivere la storia della televisione. Ma per questo si è già avuto ampio spazio di discussione in precedenza. Occorre quindi portare al centro dell’attenzione l’episodio stesso, “The End”, già oggetto di discussione nel nostro sito in un articolo scritto nel lontano 2015 da Valerio Di Paolo.
Il finale si apre con l’arrivo della bara di Christian Shephard all’aeroporto di Los Angeles accompagnato dalle note di LAX (già campionata per la première di questa stagione, da cui prende anche il titolo). L’arrivo della bara è il segno premonitore del cerchio che si sta per chiudere: Jack sta per trovare finalmente quel poco di pace che il John Locke della realtà alternativa gli augura di trovare e, al contempo, la serie sta per richiudersi su se stessa fagocitando oltre cento episodi e mille emozioni scaturite durante la loro visione.
La puntata è un lunghissimo percorso attraverso i ricordi sia per i personaggi, sia per lo spettatore che, attraverso i dosati e sempre apprezzati flashback, riesce a ripercorrere tutto ciò che è stato Lost nelle precedenti puntate, stagioni e, soprattutto, nei precedenti anni.
I primi ricordi affiorano da Jin e Sun (e dalla loro reunion con Ji Yeon attraverso lo schermo di un macchinario ospedaliero). Lo straziante dolore della loro scomparsa (6×14) torna alla luce, ma sono i ricordi carichi di amore e di gioia quelli che trovano maggiore spazio: il loro riscoprirsi coppia dopo l’incidente; il loro perdersi per poi ritrovarsi; la nascita della loro figlia.
Dopo la coppia coreana tocca a Shannon e Sayid, un fiume di ricordi più composti, ordinati e forse più semplici, ma l’intensità rimane alta e gli sguardi compiaciuti di Boone ed Hugo ripagano lo spettatore della fatica.
Tocca a Charlie e Claire (con Aaron ed una Kate che ricorda forse solo in parte): la musicalità si sprigiona al contatto tra i due ed il “grazie” sussurrato da Kate a Charlie assume tutto un altro aspetto. È un grazie carico di sentimento verso una persona che, con il proprio sacrificio, aveva permesso all’Isola di essere raggiunta e ad una parte dei sopravvissuti di essere tratti in salvo. Charlie era stato un eroe ma nessuno era stato in grado di ringraziarlo (nonostante Rose avesse appuntato che il compito di ringraziarlo spettasse a Claire più che agli altri, ndr). Le lacrime si sprecano mentre il trio si abbraccia e lo spettatore, grazie ad un tuffo nel passato, torna a sognare.
La reunion forse più straziante resta quella tra Juliet e James, abbracciati di fronte alle macchinette dell’ospedale mentre si sussurrano le esatte ultime parole con le quali si erano detti addio tra i grovigli metallici del bunker proprio nell’apertura di questa stagione.
Ma è Jack, il personaggio cardine dello show, colui che “cammina tra di noi, ma non è uno di noi”, a cui spetta il compito di chiudere il cerchio dei ricordi. Un cerchio che si chiuderà dopo essere entrato in contatto con le tre persone che hanno significato di più nella sua vita: John Locke, il padre spirituale, l’amico inaspettato; Kate, la sua amata; Christian, il padre biologico, il mentore e, in conclusione, la sua guida.
Con Locke il ricordo è composto ed arginato dal consueto spirito scientifico di Jack che, a tutti i costi, cerca di rimanere impassibile fingendo non sia accaduto nulla. John inizialmente scosso si rende conto della finta compostezza del medico ed ecco che un sorriso gli si disegna in faccia. Un sorriso sincero, grato e compiaciuto di una persona che rivede un caro amico dopo tantissimo tempo. Quel “non te lo ricordi, Jack?” diventa un ulteriore segnale che la fine si sta avvicinando a grandi passi.
Il secondo confronto di Jack con la realtà ha lo sguardo carico di lentiggini e si chiama Kate Austen, la fuggitiva che tutti gli spettatori hanno iniziato ad apprezzare nonostante il suo continuo voltafaccia al leader designato (Jack) a favore dell’amabile canaglia (Sawyer).
Il confronto è rapido, i ricordi brevi ma intensi (compresa la scena del bacio da poco andata in onda nella puntata stessa). Jack inizia finalmente a lasciarsi andare, a cedere, ma sarà solo il confronto con il padre, nel retro della chiesa, a smuovere finalmente l’animo dell’ex leader dell’Isola. Il dialogo è intenso, complesso e da alcuni spettatori (quelli stupidamente convinti che “erano tutti morti”) nemmeno minimamente colto. Eppure rappresenta quello spiegone che spesso viene utilizzato in determinate serie. Qui in maniera sapiente, evitando determinate domande e quesiti, ma preferendo piuttosto lasciare campo al sentimentalismo puro e semplice. Una cosa che in The X-Files, per esempio, si era deciso di non fare ed il risultato fu indubbiamente peggiore e meno coinvolgente.
Jack e Christian, figlio e padre, si riabbracciano mossi da sentimenti che, in vita, raramente riuscivano a trovare modo di esternare l’uno con l’altro.
Lost, ancora una volta, decide di mettere da parte la propria capacità di sceneggiare per prostrarsi alla propria passione per il dramma, riscoprendo un sentimentalismo ed una capacità di far scaturire emozioni che sembrava ormai essersi perso tra un viaggio temporale e l’altro.
Parallelamente a tutto ciò, sull’Isola il momento del fatidico scontro definitivo tra Bene e Male si sta avvicinando. Non esistono più candidati, dal momento che Jacob è definitivamente andato oltre cedendo il proprio ruolo di protettore dell’Isola a Jack. Il compito del neo-leader è raggiungere il “cuore dell’Isola” e proteggerlo da John-MiB che, recuperato Desmond, si sta recando proprio lì per portare a conclusione tutto e poter lasciare definitivamente quello scoglio che nel corso dei secoli ha imparato a maledire.
Il recupero di Desmond permette allo spettatore di incontrare per l’ultima volta Rose e Bernard, due personaggi forse non troppo presi in considerazione in quanto a minutaggio, ma con un ruolo a loro modo indispensabile all’interno delle dinamiche di gruppo e sociali delle varie fazioni che si andavano a delineare, giorno dopo giorno, sull’Isola.
È attorno proprio al “cuore dell’Isola” che il diverbio tra gli spettatori si acuisce rendendo difficile poter distinguere ciò che ha realmente funzionato e cosa no.
L’intera porzione di trama ambientata nel flashsideway funziona perché totalmente incentrata sul sentimentalismo e sul romanticismo dei ricordi (alcuni ancora vividi nello spettatore). La sceneggiatura viene messa da parte, così come la volontà degli scrittori di dare ulteriori risposte. Si predilige l’incedere romantico delle scene piuttosto che la loro corretta e completa esposizione. E tutto funziona.
Ma sull’Isola? Qui alcuni quesiti hanno necessità di trovare risposta eppure risultano bellamente ignorati ed ecco allora che, come durante la quarta stagione, allo spettatore viene chiesto l’ennesimo atto di fede: questa volta niente ruote ma un tappo (una possibile similitudine con il coperchio del vaso di Pandora) in grado di determinare il bene e il male dell’Isola. E lo spettatore è obbligato a condividere la visione di sceneggiatori, produttori e registi senza possibilità d’appello alcuna.
Certo, c’è il passaggio di ruolo tra Jack ed Hugo, Ben può finalmente ricoprire ufficialmente un ruolo che gli si confà (consigliere) e l’aereo Ajira 316 può finalmente lasciare l’Isola (con a bordo Frank, Miles, Richard, Kate, James e Claire) scrutato, dal fitto della boscaglia, da un esanime Jack. Ma resta tutto insufficiente, a ragione, per quella porzione di pubblico che avrebbe preferito risposte piuttosto che un puro e semplice tour di ricordi, per quanto bello e coscienziosamente pensato.
La puntata si arricchisce di parallelismi per i quali risulta d’obbligo un piccolo plauso a regia e corpo sceneggiatori:
– il parto di Aaron, ricreato in tutto e per tutto (anche le frasi), come nell’episodio 1×20;
– la ferita di Jack ed il rimando al pilot e al primo incontro tra Jack e Kate;
– la scena in cui Desmond viene calato nella gola del “cuore dell’Isola” è ricreata in maniera minuziosa sulla stessa linea del finale della prima stagione: Jack e John che scrutano il fondo a loro nascosto dal tetro buio delle rocce;
– la sequenza conclusiva speculare a quella iniziale della serie con Jack che chiude l’occhio ripreso dalla telecamera e spira.
Ma è all’interno degli ultimi dodici minuti circa di puntata che viene racchiuso, tramite continui salti di scena tra sideway ed Isola, il vero finale di Lost.
Del dialogo tra Jack e Christian si è già parlato: questa è la sublimazione della capacità degli sceneggiatori di Lost di creare, per l’ultima volta, un dialogo in grado di commuovere il proprio pubblico. Dopo alti e bassi, questa scena riscatta (anche se solo in parte) quanto di negativo, relativamente ai dialoghi, si potrebbe dire delle precedenti puntate. Scambi ritmati, non veloci ma nemmeno lenti fino alla nausea: Jack e Christian si prendono il loro tempo ed analizzano alcuni degli interrogativi rimasti sospesi nell’aria per molto tempo.
Erano davvero morti dall’inizio? È stato tutto vero ciò che è accaduto sull’Isola? Cos’è, quindi, questo “mondo alternativo”?
Poi, musica e poesia creano un mix da stravolgere l’animo di chiunque nel preciso istante in cui Christian apre la fatidica porta della sagrestia entrando in Chiesa. Moving On di Giacchino irrompe dal profondo dopo alcuni momenti di rumoreggiare calmo e assorto.
Sull’Isola Jack si risveglia, consapevole di aver tratto in salvo l’Isola stessa (proprio come John, anche lui è riuscito a proteggerla…). Inizia la sua camminata attraverso la foresta, verso la morte. È un incedere lento, musicale e ritmato (sempre da Moving On) con ciò che sta avvenendo in Chiesa (in questo momento tutti si stanno riabbracciando e salutando, mossi da un impeto di gioia).
Jack si siede nel banco; Jack crolla sfiancato a terra, ormai esanime.
Mentre Christian apre le porte della Chiesa, permettendo alla luce di invadere lo spazio all’interno dell’edificio, sull’Isola si sta ricreando la scena iniziale del pilot. Jack disteso a terra, Vincent che gli corre incontro. Sopra di lui l’aereo dei sopravvissuti lascia definitivamente l’Isola ed un sorriso finalmente felice si disegna sul volto del dottore: il suo sacrificio non è stato vano.
Jack chiude gli occhi e muore andando a replicare il pilot e creando una circolarità rara della narrazione, quanto meno per la cura dei dettagli e dei particolari.
“Ti stavamo aspettando.” (Locke a Jack, ultima battuta della serie)
LA MUSICA IN LOST: L’IMPORTANZA DI MICHAEL GIACCHINO [INDICE]
“My theory about making movie or televisions show is: you make it four times. You make it when you write it, you make it when you shoot it, you make it when you edited and you make it a final time when you add the music. Lost wouldn’t be anything close to what it is without the incredible music that Michael wrote for the show.”
Spesso e volentieri all’interno delle nostre recensioni si appunta, tra i thumbs up nell’apposito specchietto, come la “musicalità” oppure la “soundtrack” rappresentino per uno show in particolare un elemento positivo che in quel dato episodio è riuscito a magnetizzare l’attenzione dello spettatore, a mantenerlo vigile e circospetto durante la visione.
La musica, quindi, entra a far parte dello show come elemento non di puro contorno, ma attivo e partecipativo. Forse in Lost più che in ogni altro show, le musiche create ad hoc (ma anche le varie canzoni disseminate lungo le stagioni, basti pensare alle già citate Downtown e Make Your Own Kind Of Music) sono la sublimazione di quello che sta avvenendo in scena. Michael Giacchino è la mente ed il braccio di tutto questo: compositore, produttore e direttore d’orchestra, maestro indiscusso e compositore eccentrico (questo video che raccoglie alcuni spezzoni dei podcast prodotti dalla ABC durante le prime stagioni è utile per capire l’eccentricità di Michael).
Come esposto ad inizio paragrafo, la magia della musica in Lost è la sua perfetta commistione con ciò che sta avvenendo in scena. Lo stile non è ben preciso ma varia, esattamente come Lost, senza genere. Se la sequenza prevede una misteriosa camminata nella foresta, ecco che Giacchino opta per qualcosa dalle tinte cupe e tetre (si pensi ad un Time And Time Again oppure a Smoke Monsters, per esempio), ritmato a tal punto da spingere lo spettatore ad accartocciarsi sul divano in attesa di un incredibile colpo di scena. Un colpo di scena che magari non arriverà mai, ma la suspense creata sarà talmente alta da inibire qualsiasi tipo di mancanza.
Ma è con la musica che fa da contorno alle scene cariche di emozioni che Giacchino si esalta. Si prenda ad esempio Life And Death, Oceanic Six, LAX o alla mastodontica Moving On. C’è un motivo se la morte di Boone è riuscita a colpire nello stomaco lo spettatore nonostante il personaggio di Ian Somerhalder non fosse tra i più indispensabili ai fini della trama: Life And Death, le riprese rallentate, lo sguardo rammaricato di Jack verso Shannon, il volto stravolto dal dolore di quest’ultima. Un mix di emozioni che, per uno show arrivato al ventesimo episodio e che portava in scena la prima morte “importante”, rappresenta a conti fatti la riprova del lavoro encomiabile fatto da produzione, sceneggiatura, regia e, in questo caso, dal reparto musica capeggiato da Michael Giacchino.
Ed è chiaro il motivo per cui il finale, tanto amato e tanto odiato allo stesso tempo, riesca a suscitare delle emozioni intense e molto forti anche a dieci anni dalla sua messa in onda: Moving On è il motivo, unitamente ad una coralità conclusiva senza eguali. Se Lost è stato Lost lo si deve anche ad un non ancora totalmente affermato ragazzo del New Jersey, Michael Giacchino, e alla sua orchestra.
I PERSONAGGI [INDICE]
Lindelof: “There have been a lot of connections between the characters as time has gone by, some of which they’re aware of and some of which they aren’t aware of. But all their paths have sort of crossed in these strange and mysterious ways.”
Cuse: “There is this sort of weave of life in that. These characters that are brought together on this island all are linked to each other.” (Lost 5×00 – Il Destino Chiama)
Sarebbe stato interessante trovare il modo di ricostruire una mappa dettagliata dei collegamenti che intercorrono tra ogni singolo personaggio (principale o secondario che sia) di Lost. Qualcosa di simile allo specchietto ricreato su Lostpedia, ma magari con qualche perfezionamento. E magari sarebbe stato interessante poter elucubrare anche sul nome scelto per ogni singolo personaggio, che per amore dell’ordine riporteremo (anche se molto brevemente) in chiusura di questo paragrafo. Ma, così facendo, questa parte diventerebbe un articolo a sé visto e considerato che lo spazio che richiederebbe sarebbe decisamente considerevole.
Quello su cui bisogna prestare particolare attenzione durante la visione di Lost è la capacità degli sceneggiatori di ricreare uno schema (a tratti perfettamente logico, a tratti decisamente meno) dei personaggi basandosi sulla teoria dei sei gradi di separazione: i collegamenti non sono per forza di cose diretti (come per esempio Hugo che, dopo la vincita alla lotteria, compra l’azienda che fabbrica scatole in cui lavora John Locke), ma per lo più indiretti (James che incontra il padre di Jack dopo la sua caccia a Sawyer che altri non è che il padre di John; oppure Nadia, l’amore di Sayid, che viene salvata da Charlie durante una rapina in un vicolo). Un’intricata matassa, insomma, in cui gli sceneggiatori si immergono senza sosta per dare agli spettatori maggiori dettagli, maggiori informazioni sui propri beniamini, andandone a plasmare un background sempre più completo. E il risultato non solo è appagante, ma costituisce una delle principali motivazioni per cui tra pubblico e serie si instaura un rapporto fin da subito molto forte: ogni personaggio porta in scena la propria umanità condita da momenti positivi, ma anche di errori e di negatività. Giuseppe Grossi, nel suo romanzo Lost Moderno appunta, riferendosi proprio ai personaggi, che “è il loro essere fallimentare che li rende credibili, reali. È qui, nel punto di contatto tra personaggi e spettatori, uniti nel sentimento di limite e incertezza che Lost trova la forza di spingersi nelle nostre vite, nelle nostre esperienze di smarrimento quotidiano”.
Lost, come spesso appuntato all’interno di questo articolo, esula dal puro campo della serialità anche grazie ad una costruzione dei personaggi nei quali lo spettatore può finalmente rispecchiarsi in modo totale: non c’è perfezione (nessuno è Jack Bauer), non c’è incapacità di errore, ma ci sono personaggi che prima di tutto sono uomini, quindi imperfetti per natura, ma perfettibili. E a questo, in un certo tal senso, serve loro l’Isola: per farli diventare parte di uno scopo più grande, come Jacob cercherà poi di giustificare nell’ultima stagione durante il confronto con i Candidati.
OCEANIC 815:
– Il cognome di Jack Shephard è simile al termine inglese shepherd che significa “pastore”;
– Kate Austen → Jane Austen (scrittrice);
– James Ford usa come pseudonimo quello di Sawyer, che è anche il nome del protagonista del romanzo di Mark Twain (Le avventure di Tom Sawyer);
– John Locke → John Locke (filosofo);
– Jeremy Bentham (pseudonimo di Locke) → Jeremy Bentham (filosofo e giurista);
– Shannon Rutherford → Ernest Rutherford (chimico e fisico);
– Boone Carlyle → Thomas Carlyle (storico e filosofo);
– Mr. Eko → Meister Eckhart (teologo, mistico e filosofo);
– Aaron (il bambino che Claire partorisce sull’isola) → potrebbe collegarsi ad Aronne, un personaggio della Bibbia;
– Ji Yeon → il nome è composto in coreano da due ideogrammi (지 연) che significano rispettivamente “saggezza” e “fiori”, mentre si ottiene la parola “ritardo” se usati insieme.
GLI ALTRI:
– Benjamin Linus → Beniamino, nella bibbia figlio prediletto di Giacobbe (Jacob);
– Juliet Burke → Edmund Burke (politologo e filosofo);
– Goodwin → William Godwin (filosofo);
– Mikhail Bakunin → Michail Aleksandrovič Bakunin (rivoluzionario e filosofo);
– Il personaggio di Ethan, una volta infiltratosi tra i losties come gli è stato ordinato, dichiara ad Hurley di chiamarsi Ethan Rom che è l’anagramma di Other man (“altro uomo”);
– Richard Alpert → Richard Alpert (filosofo).
KAHANA:
– Daniel Faraday → Michael Faraday (chimico e fisico);
– George Minkowski → Hermann Minkowski (matematico);
– Charlotte Staples Lewis → Clive Staples Lewis (scrittore e filologo).
Personaggi vari:
– Danielle Rousseau → Jean-Jacques Rousseau (scrittore e filosofo);
– Desmond David Hume → David Hume (filosofo);
– Penelope → richiama chiaramente la figura di Penelope dell’Odissea, con Desmond nei panni di un Ulisse post-moderno;
– Jacob → il personaggio misterioso dell’isola richiama la figura del patriarca Giacobbe. Il fatto che inizialmente solo Ben può vederlo e parlarci ricorda la storia della Bibbia secondo la quale tra tutti i suoi figli Giacobbe preferisse il più giovane, Beniamino;
– Anthony Cooper, padre di John Locke → Anthony Cooper (filosofo).
CONCLUSIONE [INDICE]
“Laddove gli altri semplificano, Lost complica.” (Damon Lindelof)
È complicato riuscire a trovare le giuste parole per poter concludere un articolo riguardante Lost: molti dettagli, nonostante fossero interessanti, sono stati forzatamente omessi onde evitare che lo sproloquio diventasse un vero e proprio papiro.
Per esempio non si è fatta menzione dell’origine del rumore metallico alla base del famigerato mostro di fumo. Abrams ed il suo team, non sapendo che “verso” far fare all’entità, optarono per un elemento a tratti banale, a tratti geniale: una versione rimaneggiata del suono che emette la stampante delle ricevute dei taxi di New York.
Lost è stata una serie in grado di mostrare luci e ombre di una serialità che si stava evolvendo e che stava creando prodotti in grado di impensierire anche il cinema stesso. Se si tiene in considerazione, poi, che la produzione trovava casa in una rete generalista, l’unicità del caso diventa singolare. La serie della ABC è stata in grado di creare un connubio tra un semplice drama (dal plot quasi banale) ad una vera e propria ricerca di sé stessi attraverso la quale le ansie esistenziali e le inquietudini della vita che lo spettatore viveva in prima persona nella realtà, trovavano riscontro dall’altra parte dello schermo.
Unitamente a ciò, Lost si è nutrito di una trasmedialità pressoché unica e che rappresenta il vero trampolino di lancio che la rese non solo una serie tv, bensì un’esperienza di vita a tutto tondo. Un’esperienza in cui il punto di domanda è il vero protagonista.
La trasmedialità la si riscontra nei forum, nei podcast, nelle Lost Experience create tra una stagione e l’altra per tenere alto il livello di partecipazione del pubblico, nei riferimenti nella cultura di massa: Lost è diventata parte integrante della vita di milioni di persone anche senza che questi avessero avuto modo, tempo o voglia di guardarne un singolo episodio, tanto la realtà venne permeata dal lavoro di Lindelof e Cuse.
Un prodotto fatto di luci, sì, ma anche di ombre che sono andate ad offuscare, per alcuni, anche il finale di serie. Se ne è parlato abbondantemente, sia degli aspetti positivi sia di quelli negativi, nei precedenti paragrafi ed appare insensato andare a recuperare l’intero discorso. Lost resta un telefilm non da guardare, bensì da osservare, da vivere e con il quale ragionare, facendosi accompagnare in un percorso di crescita (anche solo televisiva) al termine del quale si avranno le necessarie conoscenze per poter esprimere un giudizio non dettato dal puro e semplice gusto personale. Lost potrebbe essere un prodotto figlio del proprio tempo e che deve buona parte della sua fortuna alla realtà storica (quella televisiva si intende, parliamo pur sempre di una quindicina di anni fa) nella quale è sbocciato. La sensazione, al termine di un rewatch fatto nel 2020, è quella di ritrovarsi comunque di fronte ad un prodotto maturo, forse non completo, ma il sentimentalismo ricolma i vuoti lasciati da una sceneggiatura sotto certi aspetti discutibilissima.
“Lost è ambientata in un luogo che ne racchiude la metafora mediatica. L’Isola rappresenta l’allegoria del suo distacco netto dall’oceano di serie che tanto si somigliano tra loro; l’Isola di Lost diventa il simbolo di un modo a sé stante di raccontare, vivere e sentire una storia. All’interno di un vasto panorama televisivo, molto frastagliato, ma pieno di costanti comuni a molti prodotti, Lost presenta delle anomalie che la rendono assolutamente unica nel suo non-genere.” (Lost Moderno, Giuseppe Grossi)
– Lost Moderno – Lettura di una serie televisiva (Giuseppe Grossi, 2010);
– Mitologia di Lost (Francesca Piombo, 2015);
– Pensare Lost – L’enigma della vita e i segreti dell’Isola (Roberto Manzocco, 2010);
– Totally Lost (Mauro De Marco, 2016);
– Natale sull’Isola: l’eterno ritorno di Lost (Roberto Bonzi, 2017);
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Conosciuto ai più come Aldo Raine detto L'Apache è vincitore del premio Oscar Luigi Scalfaro e più volte candidato al Golden Goal.
Avrebbe potuto cambiare il Mondo. Avrebbe potuto risollevare le sorti dell'umana stirpe. Avrebbe potuto risanare il debito pubblico. Ha preferito unirsi al team di RecenSerie per dar libero sfogo alle sue frustrazioni. L'unico uomo con la licenza polemica.
Grazie per questa pagina.
Lost per me (ma mi sembra di vedere sentimenti simili anche nelle tue parole) è come quei grandi amori passati: ti fanno ancora battere il cuore ripensando ai momenti belli o ti fanno ancora incazzare ripensando a quelli peggiori, cose che sono puntualmente successe anche leggendo queste righe, passando virtualmente da una stagione all’altra in quest’ultima ora di lettura.
La prima visione è ammagliante, le successive lasciano sedimentare tutto e te lo fanno apprezzare di più ancora e così pare perpetuo, anche a distanza di 10 anni dall’ultimo definitivo “previously on Lost”.
Mi sono ritrovato a notare e capire un certo sguardo fra i protagonisti dopo più visioni.
Mi sono ritrovato a ripensare solo alla quinta visione alla circolarità (altro tema centrale nella serie) del vero John che fa uccidere la persona che più odia da qualcun altro esattamente come il falso John (aka MIB) fa con Jacob tramite Ben.
Mi sono ritrovato a chiedermi il senso di andare avanti riguardando la quarta (o pezzi della quinta e della sesta) esattamente come durante quasi ogni puntata delle prime due stagioni rivedevo la perfezione che vidi la prima volta.
Mi sono ritrovato in lacrime ad ogni “risveglio” nel finale esattamente.
Lost è un’esperienza, dici bene.
Siamo cresciuti con i suoi personaggi, al di là di gusti, simpatie o antipatie e l’Isola ci ha fatt di paura e rabbia, amore e odio.
E credo che ognuno di noi, ammiratori e detrattori, sia stato proiettato in un enorme viaggio che dalla sua fine in poi, ma già durante la sua durata, ci ha cambiato per sempre
Grazie per il bellissimo commento, Alessandro. Apprezzo particolarmente.
Soprattutto perché hai colto pienamente il senso dell’articolo: il mio intento non era quello di convincere qualcuno che Lost sia stato (e sia tutt’oggi) perfetto, quanto piuttosto evidenziarne le lacune, ma anche il ruolo fondamentale che ha ricoperto nell’evoluzione delle serie tv di cui oggi fruiamo liberamente.
E sì, Lost è un’esperienza che, con i suoi pregi ed i suoi difetti, resta tale anche all’ennesimo rewatch.
Grazie della risposta.
E dell’aver perdonato i pessimi refusi nel mio commento :)))))