0
(0)
In una parola: disturbante. The Walking Dead torna a calcare la scena telefilmica per la settima volta e lo fa regalandoci uno degli episodi più crudi ed emotivamente impattanti andati in onda finora. Sono passati oramai sei mesi da quella filastrocca maledetta, terminata con la soggettiva più “infame” della storia e, naturalmente, gli autori ripartono esattamente da lì, mostrandoci Negan in tutto il suo sadismo. Un sadismo necessario in questo nuovo mondo, a maggior ragione se si ha la pretesa di essere a capo di un vero e proprio esercito di sopravvissuti. Nel lasso di tempo intercorso tra la fine della sesta e l’inizio della settima stagione si è tanto parlato in merito al nome del poveretto massacrato dalla follia omicida del nuovo villain. Teorie e speculazioni di ogni genere sono fioccate su internet: da una parte i sostenitori della fedeltà con l’opera originale, che vedeva appunto Glenn quale vittima designata, dall’altra invece coloro che sostenevano il contrario, dunque la possibilità di deviare dal sentiero originale puntando tutto sull’effetto sorpresa. E invece, con un gesto di particolare coraggio, gli autori decidono di accontentare entrambe le parti, partendo da una morte sicuramente meno sentita, che da un lato rincuora i sostenitori di Glenn l’immortale, ma dall’altra delude le aspettative maturate nei sei mesi di stop, per poi assestare il colpo di grazia allo spettatore proprio nel momento in cui la tensione comincia a dissiparsi. Il tutto condito da una violenza inaudita, in alcuni istanti portata all’estremo, che non colpisce lo spettatore per un fattore squisitamente estetico – sangue e budella sono sicuramente all’ordine del giorno in una serie come The Walking Dead – piuttosto per una sequela di scelte, registiche e di dialogo, che permettono allo spettatore di percepire in maniera tangibile l’angoscia, il dolore e l’impotenza provata dai nostri protagonisti.
Ma cerchiamo di andare con ordine, mettendo da parte per un attimo l’impatto emotivo scatenato dalla visione dell’episodio, su cui comunque torneremo tra poco per approfondirne ulteriormente i pregi, concentrandoci un attimo sul fattore TWD – che non sta per The Walking Dead, bensì per The Wonderful Delusion, termine da noi coniato per racchiudere in tre parole l’inganno rappresentato da premiere, mid-season e season finale, appuntamenti all’interno dei quali la qualità del telefilm fa capolino per circa una ventina di minuti e al termine dei quali la noia e l’inutilità tornano a regnare sovrani – elemento che provoca in noi recensori paura e angoscia, al pari di Lucille per i nostri protagonisti, e che ogni anno ci porta a odiare, e di conseguenza stroncare, ogni episodio al di fuori dei tre casi sopracitati.
“The Walking Dead è una serie…carina.“. Iniziavamo così la recensione dello scorso season finale. Un attacco che avrà fatto schizzare sull’attenti i numerosi fanboy del Morto Che Cammina, indignati e sbigottiti dall’infelice accostamento del termine “carina” a un’opera maestosa qual è The Walking Dead. Ecco, partendo dal presupposto che il fanboy lobotomizzato non rappresenta esattamente il prototipo di lettore a cui aspiriamo, e che per noi è il termine “maestosa” a stonare all’interno di questo periodo, questo lead rappresenta ad oggi il miglior modo per spiegare in maniera tanto epigrafica quanto esaustiva l’approccio migliore per poter godere a pieno di questa serie televisiva. Carina perché non potrà mai accontentare a pieno i fan dell’originale fumettistico, carina perché l’eccessiva introspezione finirà sempre per stufare l’amante del survival horror, carina perché tre puntate qualitativamente impeccabili a stagione per una serie come The Walking Dead non sono assolutamente sufficienti a compensare il nulla cosmico delle altre tredici. Ed è proprio grazie a questa “sottostima” (questione di punti di vista) che episodi come questi possono essere apprezzati in modo ancor più totale, empatizzando a tal punto con i protagonisti da percepire la loro tensione, portandoci così a gradire quella stramaledetta ricerca dell’elemento introspettivo che ci ha portato allo sfinimento e che, senza dubbio, continuerà a sfinirci anche in questa settima stagione. Elemento che, naturalmente, è necessario in un telefilm come The Walking Dead, costruito sul percorso interiore dei protagonisti piuttosto che sul fattore zombie, ma sul quale gli autori hanno oggettivamente marciato per anni per poter dare così un senso a episodi tappabuchi costruiti solo ed esclusivamente per allungare il brodo e fare le big views senza troppa fatica. Massimo risultato, minino sforzo…creativo.
Ma torniamo ad elogiare questa ottima premiere. Abbiamo già parlato dell’utilizzo intelligente della violenza e della forte empatia provata nei confronti di Rick e compagni. Tutto molto bello, tutti d’accordo, tutti contenti, clap clap, standing ovation, ecc. Ma quali sono, in breve, i punti di forza dell’episodio? Quali sono gli elementi che la serie dovrebbe cercare di riproporre nei prossimi appuntamenti e che invece non ripresenterà fino al mid-season finale deludendoci un sacco e facendoci piangere in un angolino della stanza in posizione fetale al grido di “Ma perché continuo a perdere ore della mia vita dietro a sta minchiata“? Innanzitutto la ricerca del colpo al cuore, attraverso uno degli elementi che ha reso lo show una pietra miliare della serialità televisiva (ebbene sì haters, dovete farvene una ragione, pietra miliare) e che prima della deriva in nome del fan service più becero rappresentava anche la raison d’etre dell’intero show: la sacrificabilità di qualsiasi personaggio, a prescindere dal ruolo ricoperto all’interno delle vicende. Certo, per ritornare a questa “sacrificabilità” si è dovuti passare attraverso innumerevoli momenti in stile Highlander (Glenn e le sue nove vite) che in parte hanno contribuito alla decadenza del telefilm negli anni, ma in questo episodio, anche solo per un attimo, riusciamo a perdonare la serie per tutte le ore di vita buttate via finora. La morte di Abraham e le sue ultime parole, il cranio sfondato e l’occhio fuori dalle orbite di Glenn, per non parlare del suo saluto a Maggie, un elogio all’amore e alla speranza di un ricongiungimento che va oltre la vita stessa, l’angoscia negli occhi di personaggi solitamente imperturbabili come Daryl e Rick, quest’ultimo addirittura in lacrime, singhiozzante e implorante, disposto al compromesso e realmente terrorizzato dalla lucida follia di Negan. Tutti questi elementi, sommati a una performance da Emmy della coppia Andrew Lincoln/Jeffrey Dean Morgan, danno vita a uno dei migliori episodi della serie da almeno un paio di anni a questa parte. Nonché a una profonda riflessione sulla casualità della vita, sulla sua imprevedibilità e caducità.
Sono diversi, inoltre, i riferimenti biblici. Da Negan che, al pari di un dio onnipotente, ferma di colpo il braccio di Rick appena prima che tagli il braccio del figlio, una sorta di moderno sacrificio di Isacco; oppure la visione paradisiaca che precede la discesa all’inferno di Rick, una tavolata all’insegna della felicità, su cui campeggiano, immancabili, un cesto di pane e una bottiglia di vino, ennesimo riferimento cristologico, probabilmente una visione simbolica del posto in cui Glenn, poco prima di morire, sperava di poter ritrovare la sua amata compagna.
Ma cerchiamo di andare con ordine, mettendo da parte per un attimo l’impatto emotivo scatenato dalla visione dell’episodio, su cui comunque torneremo tra poco per approfondirne ulteriormente i pregi, concentrandoci un attimo sul fattore TWD – che non sta per The Walking Dead, bensì per The Wonderful Delusion, termine da noi coniato per racchiudere in tre parole l’inganno rappresentato da premiere, mid-season e season finale, appuntamenti all’interno dei quali la qualità del telefilm fa capolino per circa una ventina di minuti e al termine dei quali la noia e l’inutilità tornano a regnare sovrani – elemento che provoca in noi recensori paura e angoscia, al pari di Lucille per i nostri protagonisti, e che ogni anno ci porta a odiare, e di conseguenza stroncare, ogni episodio al di fuori dei tre casi sopracitati.
“The Walking Dead è una serie…carina.“. Iniziavamo così la recensione dello scorso season finale. Un attacco che avrà fatto schizzare sull’attenti i numerosi fanboy del Morto Che Cammina, indignati e sbigottiti dall’infelice accostamento del termine “carina” a un’opera maestosa qual è The Walking Dead. Ecco, partendo dal presupposto che il fanboy lobotomizzato non rappresenta esattamente il prototipo di lettore a cui aspiriamo, e che per noi è il termine “maestosa” a stonare all’interno di questo periodo, questo lead rappresenta ad oggi il miglior modo per spiegare in maniera tanto epigrafica quanto esaustiva l’approccio migliore per poter godere a pieno di questa serie televisiva. Carina perché non potrà mai accontentare a pieno i fan dell’originale fumettistico, carina perché l’eccessiva introspezione finirà sempre per stufare l’amante del survival horror, carina perché tre puntate qualitativamente impeccabili a stagione per una serie come The Walking Dead non sono assolutamente sufficienti a compensare il nulla cosmico delle altre tredici. Ed è proprio grazie a questa “sottostima” (questione di punti di vista) che episodi come questi possono essere apprezzati in modo ancor più totale, empatizzando a tal punto con i protagonisti da percepire la loro tensione, portandoci così a gradire quella stramaledetta ricerca dell’elemento introspettivo che ci ha portato allo sfinimento e che, senza dubbio, continuerà a sfinirci anche in questa settima stagione. Elemento che, naturalmente, è necessario in un telefilm come The Walking Dead, costruito sul percorso interiore dei protagonisti piuttosto che sul fattore zombie, ma sul quale gli autori hanno oggettivamente marciato per anni per poter dare così un senso a episodi tappabuchi costruiti solo ed esclusivamente per allungare il brodo e fare le big views senza troppa fatica. Massimo risultato, minino sforzo…creativo.
Ma torniamo ad elogiare questa ottima premiere. Abbiamo già parlato dell’utilizzo intelligente della violenza e della forte empatia provata nei confronti di Rick e compagni. Tutto molto bello, tutti d’accordo, tutti contenti, clap clap, standing ovation, ecc. Ma quali sono, in breve, i punti di forza dell’episodio? Quali sono gli elementi che la serie dovrebbe cercare di riproporre nei prossimi appuntamenti e che invece non ripresenterà fino al mid-season finale deludendoci un sacco e facendoci piangere in un angolino della stanza in posizione fetale al grido di “Ma perché continuo a perdere ore della mia vita dietro a sta minchiata“? Innanzitutto la ricerca del colpo al cuore, attraverso uno degli elementi che ha reso lo show una pietra miliare della serialità televisiva (ebbene sì haters, dovete farvene una ragione, pietra miliare) e che prima della deriva in nome del fan service più becero rappresentava anche la raison d’etre dell’intero show: la sacrificabilità di qualsiasi personaggio, a prescindere dal ruolo ricoperto all’interno delle vicende. Certo, per ritornare a questa “sacrificabilità” si è dovuti passare attraverso innumerevoli momenti in stile Highlander (Glenn e le sue nove vite) che in parte hanno contribuito alla decadenza del telefilm negli anni, ma in questo episodio, anche solo per un attimo, riusciamo a perdonare la serie per tutte le ore di vita buttate via finora. La morte di Abraham e le sue ultime parole, il cranio sfondato e l’occhio fuori dalle orbite di Glenn, per non parlare del suo saluto a Maggie, un elogio all’amore e alla speranza di un ricongiungimento che va oltre la vita stessa, l’angoscia negli occhi di personaggi solitamente imperturbabili come Daryl e Rick, quest’ultimo addirittura in lacrime, singhiozzante e implorante, disposto al compromesso e realmente terrorizzato dalla lucida follia di Negan. Tutti questi elementi, sommati a una performance da Emmy della coppia Andrew Lincoln/Jeffrey Dean Morgan, danno vita a uno dei migliori episodi della serie da almeno un paio di anni a questa parte. Nonché a una profonda riflessione sulla casualità della vita, sulla sua imprevedibilità e caducità.
Sono diversi, inoltre, i riferimenti biblici. Da Negan che, al pari di un dio onnipotente, ferma di colpo il braccio di Rick appena prima che tagli il braccio del figlio, una sorta di moderno sacrificio di Isacco; oppure la visione paradisiaca che precede la discesa all’inferno di Rick, una tavolata all’insegna della felicità, su cui campeggiano, immancabili, un cesto di pane e una bottiglia di vino, ennesimo riferimento cristologico, probabilmente una visione simbolica del posto in cui Glenn, poco prima di morire, sperava di poter ritrovare la sua amata compagna.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
|
|
Una partenza senza dubbio incoraggiante. Le premesse per un’inversione di rotta ci sono tutte, ma noi, pur conferendo la nostra benedizione all’episodio, rimaniamo in allerta confidando di non ritrovarci presto nel nostro amato angolino a inveire contro santi e figure bibliche d’ogni forma e dimensione.
Last Day On Earth 6×16 | 14.20 milioni – 6.9 rating |
The Day Will Come When You Won’t Be 7×01 | 17.03 milioni – 8.4 rating |
Sponsored by The Walking Dead ITA, The Walking Dead Italia
Quanto ti è piaciuta la puntata?
0
Nessun voto per ora
Tags:
Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.