The Handmaid’s Tale 2×05 – SeedsTEMPO DI LETTURA 4 min

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Se la passata stagione al termine del quinto episodio ci si trovava alla fine del primo tempo, quest’anno con l’ordine da parte di Hulu di altre tre puntate – per un totale di tredici – la situazione cambia in modo non indifferente.
L’atmosfera che si respira in “Seeds” per certi versi è più che altro assimilabile a quella di una season premiere: cinquanta minuti che restituiscono la luce dei riflettori alla protagonista June dopo la violenza psicologica perpetratale da Aunt Lydia in “Other Woman“; che archiviano la prima (ma probabilmente non ultima) fuga da Gilead; che offrono nuovi spunti per proseguire la narrazione.
Un episodio dal sapore metallico, come il sangue che scorre per ogni fotogramma dal ventre di Offred, o come la brulla, arida terra delle Colonie dove le dissidenti “arrivano, lavorano e muoiono”. Un episodio che conferma in pieno l’alto livello cinematografico raggiunto e che, al tempo stesso, si prende lo spazio per sperimentare con la propria mitologia simbolica. Come diretta conseguenza dell’intromissione nella psiche di June della morale di Gilead infatti, per la prima volta lo spettatore si ritrova privato del commento agrodolce in voice over della stessa. In maniera similare, si diradano di molto rispetto alla consuetudine i primissimi piani sulle sue emozioni/reazioni, con una regia che preferisce mostrare innanzitutto il quadro generale. Proprio grazie a questi tecnicismi è reso magistralmente l’annichilimento della protagonista, completamente passiva e privata di ogni pensiero, dopo essere stata travolta dal senso di colpa.
Per dovere di cronaca, bisogna anche riconoscere che seppur emotivamente molto ben riuscito – nulla da dire in questo senso all’interpretazione della Moss – a livello di sviluppo risulta forse essere troppo repentino e immediato il suo risveglio dall’apatia forzata. Nonostante siano difetti che non inficiano la qualità complessiva dell’episodio, la confusione (magari persino ricercata) riguardo il fato del bambino, appeso ad un filo lungo tutto la puntata, così come il ritorno alla lotta nel finale, potevano essere affrontati in maniera migliore. D’altronde, una volta assaporata la libertà, è comprensibile non riuscire a restarci lontano per troppo tempo, indipendentemente da qualsiasi sovrastruttura si metta in mezzo.

Emily: “This place is hell, and covering it up in flowers doesn’t change anything.”
Janine: “Well, so what? We come here, we work here, we die. Kit’s going to die happy, so what’s the problem?”
Emily: “Gilead took your eye. They took my clit. Now we’re cows being worked to death, and you’re dressing up the slaughterhouse for them. That’s the fucking problem.”
Janine: “Cows don’t get married.”

La parte forte dell’episodio però, è indubbiamente rappresentata dal duplice matrimonio celebrato a Gilead e nelle Colonie. Se del primo ancora poco si può dire – fatto salvo riconoscere il coraggio degli autori di “occidentalizzare” un problema come quello delle spose bambine purtroppo ancora presente – in quanto bisognerà aspettare per vedere in che modo e in che misura spariglierà le carte all’interno di casa Waterford (Sydney Sweeney, già vista di recente su Netflix con Everything Sucks!, sembra essere a tal proposito accreditata da qui in poi come recurring character), è l’unione in punto di morte orchestrata da Janine a coinvolgere maggiormente. Del personaggio interpretato da Madeline Brewer ci si ritrova così a riaffermare quanto già scritto nell’altro, drammaticissimo, episodio in cui si ritrovava al centro dell’attenzione. Come in “The Bridge“, infatti, è proprio lei ad essere la vera anti eroina del racconto delle ancelle. Quella che quantomeno offre, pur con ingenuo candore, un modo di resistere alle violenze del sistema, per cercare di preservare la propria innocenza anche all’interno di quello che è, a tutti gli effetti, un campo di concentramento. Il valore che assume anche solo una scanzonata risposta come quella all’addolorata disperazione di Emily (“Cows don’t get married“) è di estrema importanza per tutta la serie.
Non è in questo modo una stoica speranza a fare proseguire la visione, ma una rinnovata consapevolezza che anche in mezzo al deserto più arido può nascere un fiore di umanità. Sarebbe stato fin troppo facile per gli autori adagiarsi sugli allori di una situazione cupa e disperata, che dai recenti fatti di attualità può solo che tristemente imparare. Considerando quanto lapalissiano sia che The Handmaid’s Tale punti ad essere un prodotto che abbia una sua voce socialmente impegnata, è bene che si sia fatto lo sforzo, per citare Calvino, di riconoscere qualcosa in mezzo all’inferno che non sia inferno. E farlo durare e dargli spazio.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Contrasti tra Aunt Lydia e famiglia Waterford
  • By God’s grace, I’ll have a child of my own someday, sir” 
  • Le cerimonie matrimoniali
  • Il candore eroico di Janine
  • Aunt Lydia: “I used to smoke too, once upon a time
  • Fotografia e regia
  • Interpretazioni sempre impeccabili
  • Si poteva – e forse si doveva – aspettare per il ritorno alle armi di June

 

L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.
(Italo Calvino, “Le Città Invisibili”)

 

Other Woman 2×04 ND milioni – ND rating
Seeds 2×05 ND milioni – ND rating

 

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