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È inutile negare che The Witcher fosse una serie più attese del 2019 (sebbene sia uscita a un passo dal 2020). I motivi sono facilmente intuibili: da un lato si tratta di un fantasy sporco e crudo che va a colmare il posto lasciato vuoto dalla fine di Game of Thrones, serie che merita tante critiche ma a cui va riconosciuto il merito di aver rilanciato in televisione il genere fantastico e di avergli conferito una connotazione più adulta nell’immaginario collettivo; dall’altro è un prodotto che godeva già di una certa fama prima ancora della messa in onda, grazie non tanto al successo editoriale dei romanzi e dei racconti di Andrzej Sapkowski quanto piuttosto delle trasposizioni videoludiche della CD Projekt.
Quest’ultimo punto ha inevitabilmente alimentato hype e aspettative come poche altre serie hanno saputo fare. E non bisogna dimenticare tutto il chiacchiericcio creatosi intorno a questo adattamento televisivo fin dalla fase di casting, dalle critiche alla scelta di Henry Cavill nei panni del protagonista alle inevitabili conseguenze dei rumours, poi rivelatisi infondati, di blackwashing per il personaggio di Ciri.
Comunque sia, The Witcher è finalmente approdata su Netflix appena in tempo per il binge watching natalizio ed è arrivato il momento di esprimere un giudizio sul primo episodio. Purtroppo non è il giudizio entusiastico ed estasiato che si sperava di esprimere, e la colpa non è certo della natura introduttiva del pilot, quanto di una serie di scelte estetiche e narrative che azzoppano in partenza la nuova creatura di Netflix. Una delle poche cose davvero convincenti è quella che alla vigilia della messa in onda destava i maggiori dubbi: l’interpretazione di Henry Cavill. Il già Superman, su cui molti non avrebbero scommesso un soldo, convince ampiamente nei panni di Geralt di Rivia, l’antieroe tormentato nella sua diversità e nella discriminazione che ne deriva, il mutante che sa sfoderare un’amara ironia come unica arma contro un mondo crudo e violento.
Quest’ultimo punto ha inevitabilmente alimentato hype e aspettative come poche altre serie hanno saputo fare. E non bisogna dimenticare tutto il chiacchiericcio creatosi intorno a questo adattamento televisivo fin dalla fase di casting, dalle critiche alla scelta di Henry Cavill nei panni del protagonista alle inevitabili conseguenze dei rumours, poi rivelatisi infondati, di blackwashing per il personaggio di Ciri.
Comunque sia, The Witcher è finalmente approdata su Netflix appena in tempo per il binge watching natalizio ed è arrivato il momento di esprimere un giudizio sul primo episodio. Purtroppo non è il giudizio entusiastico ed estasiato che si sperava di esprimere, e la colpa non è certo della natura introduttiva del pilot, quanto di una serie di scelte estetiche e narrative che azzoppano in partenza la nuova creatura di Netflix. Una delle poche cose davvero convincenti è quella che alla vigilia della messa in onda destava i maggiori dubbi: l’interpretazione di Henry Cavill. Il già Superman, su cui molti non avrebbero scommesso un soldo, convince ampiamente nei panni di Geralt di Rivia, l’antieroe tormentato nella sua diversità e nella discriminazione che ne deriva, il mutante che sa sfoderare un’amara ironia come unica arma contro un mondo crudo e violento.
Un mondo, va debitamente sottolineato, che pullula di mostri fin dai primi fotogrammi ma in cui la vera mostruosità risiede nell’uomo stesso, mentre paradossalmente a farsi portatore di umanità e di valori etici è lo strigo Geralt.
Pur essendo consapevole dell’abisso oscuro che si cela in ognuno di noi, il nostro eroe predica una morale fatta di rinuncia alla vendetta, evita finché può di incrociare la propria lama con quella di Rhenfri e quando è costretto lo fa a malincuore, persino dopo la morte della donna mostra nei confronti del suo cadavere ancora caldo un rispetto che invece manca a Stregobor, lo stregone assai lontano dall’immagine rassicurante di un Gandalf o di un Silente ma piuttosto inquietante via di mezzo tra un inquisitore medievale e l’angelo della morte Josef Mengele. Stregobor è ansioso soltanto di compiere autopsie e portare avanti le ricerche esoteriche in nome delle quali ha distrutto la vita di tante bambine e tante donne, e non esita ad aizzare contro Geralt una folla fin troppo suscettibile alla retorica che condanna la diversità perché non la capisce e ne ha paura.
Pur essendo consapevole dell’abisso oscuro che si cela in ognuno di noi, il nostro eroe predica una morale fatta di rinuncia alla vendetta, evita finché può di incrociare la propria lama con quella di Rhenfri e quando è costretto lo fa a malincuore, persino dopo la morte della donna mostra nei confronti del suo cadavere ancora caldo un rispetto che invece manca a Stregobor, lo stregone assai lontano dall’immagine rassicurante di un Gandalf o di un Silente ma piuttosto inquietante via di mezzo tra un inquisitore medievale e l’angelo della morte Josef Mengele. Stregobor è ansioso soltanto di compiere autopsie e portare avanti le ricerche esoteriche in nome delle quali ha distrutto la vita di tante bambine e tante donne, e non esita ad aizzare contro Geralt una folla fin troppo suscettibile alla retorica che condanna la diversità perché non la capisce e ne ha paura.
Se l’avventura di Geralt si sviluppa in un arco narrativo chiuso già entro la fine dell’episodio, un barlume di trama orizzontale fa la sua comparsa nell’altra storyline incentrata sulla giovane principessa Cirilla, catapultata bruscamente dal mondo ovattato e rassicurante della corte in una realtà fatta di sangue e perdite. Purtroppo la fretta di comprimere la narrazione negli angusti limiti della puntata, in modo tale da chiuderla con la fuga della ragazzina dal castello devastato e in fiamme, costringe il racconto a un ritmo forsennato, in cui manca il minimo approfondimento dei tanti personaggi che affollano lo schermo o del contesto, con la conseguenza inevitabile che lo spettatore digiuno dell’opera cartacea rischia di capire poco e niente. Lo stesso problema affligge anche la storyline di Gerald: o meglio, nei dialoghi ci si abbandona a spiegoni spesso inutili su dettagli assolutamente insignificanti, mentre informazioni davvero vitali come la reale natura dei Witcher, del loro ordine, della loro missione sono affidati ad accenni e singole frasi che lo spettatore deve andare a ricostruire. Meglio aveva fatto l’adattamento televisivo polacco del 2002, il misconosciuto Wiedźmin che partendo dall’infanzia del protagonista almeno faceva capire qualcosa in più.
Qualche piccolo indizio lascia persino intuire che la vicenda di Cirilla sia ambientata su un piano temporale diverso da quello dello scontro tra Geralt e Rhenfri: quest’ultima cita infatti come recente la battaglia di Hochebuz che la regina Calanthe di Cintra, nonna di Cirilla, ha combattuto a quindici anni. Una bella trovata, purché sia sorretta da una scrittura di livello che non trasformi tutto in un epilettico saltellare da una linea temporale all’altra solo per fare i fighi sul piccolo schermo.
Venendo al lato estetico e tecnico, non si può non nascondere una certa delusione. E’ vero che solitamente il fantasy televisivo deve accontentarsi di budget inadatti alla messa in scena sontuosa e piena di effetti speciali che richiederebbe e che persino Game of Thrones ha iniziato con relativamente pochi soldi, ma qui si parla di Netflix, che non ha mai badato a spese per le serie in cui credeva e che persino per un prodotto meno ambizioso come Lost in Space sembra aver speso più soldi che per The Witcher. Non siamo ai livelli di un The Outpost, sicuramente un pelo sopra The Shannara Chronicles, ma la fastidiosa sensazione di povertà e di mancanza di epicità che diverse scene trasmette è innegabile e fa temere il peggio per il prosieguo; sempre che non si sia voluto tenere da parte il grosso del budget per la parte finale della stagione, come spesso accade quando si deve gestire una produzione dai costi tutt’altro che bassi. In ogni caso, momenti come la battaglia fra Cintra e Nilfgaard e il successivo attacco al castello appaiono più ridicoli che epici, incapaci di trasmettere fino in fondo quell’aura di devastazione e di brutalità che dovrebbero caratterizzarle.
Parziale consolazione è il duello finale tra Rhenfri e Geralt, un capolavoro coreografico che traspone mirabilmente le particolarità dello stile di combattimento dello strigo e che riesce a esaltare al meglio la prestanza fisica di Henry Cavill, surclassando in un colpo solo tante scene d’azione di colleghi ben più blasonati. Almeno possiamo stare tranquilli che quando ci sarà da incrociare le spade ne vedremo delle belle.
Parziale consolazione è il duello finale tra Rhenfri e Geralt, un capolavoro coreografico che traspone mirabilmente le particolarità dello stile di combattimento dello strigo e che riesce a esaltare al meglio la prestanza fisica di Henry Cavill, surclassando in un colpo solo tante scene d’azione di colleghi ben più blasonati. Almeno possiamo stare tranquilli che quando ci sarà da incrociare le spade ne vedremo delle belle.
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The Witcher non è una serie da buttar via, ci mancherebbe, ma non parte tanto bene. Forse il problema risiede nelle aspettative esagerate che si erano create intorno a questo titolo, forse si sbaglia ad aspettarsi sempre da Netflix una messa in scena sontuosa e una scrittura degna di questo nome, fatto sta che le avventure di Geralt di Rivia sul piccolo schermo non partono col piede giusto. Confidiamo in una crescita esponenziale nelle prossime puntate.
The End’s Beginning 1×01 | ND milioni – ND rating |
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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.