Baskets 1×09 – PicnicTEMPO DI LETTURA 4 min

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Ad un passo dal season finale, Baskets arriva finalmente a mostrare tutto il suo potenziale, finora solo affiorato in superficie sporadicamente, dando vita a “Picnic”, episodio perfetto sia dal punto di vista dell’esperienza percettiva che da quello della mobilitazione affettiva da parte dello spettatore. Sebbene finora la visione della serie risultasse caratterizzata da  una dimensione fortemente anempatica, alla luce di questo nono episodio l’esperienza di fruizione appare radicalmente cambiata, rinnovata.
L’esercizio visivo, in “Picnic”, innesca una sorta di processo regressivo, che per un attimo induce lo spettatore a rivivere alcune delle tappe che hanno segnato il percorso relativo alla formazione della propria soggettività. Il rapporto con quanto viene messo in scena da Galifianakis e colleghi non solo fa risuonare le corde più intime dello spettatore, ma diventa anche strumento per un suo posizionamento all’interno delle vicende narrate. Per comprendere al meglio quanto affermato, è utile far riferimento, molto brevemente, alla teoria dello specchio elaborata da Jacques Lacan, importante psicanalista francese, ripresa poi dal semiologo Christian Metz nelle sue analisi riguardanti il dispositivo cinematografico. Lacan afferma che, nei primi mesi di vita, il bambino attraversa la cosiddetta fase dello specchio: in una prima tappa il bambino, accompagnato da un adulto dinnanzi allo specchio, confonde la realtà con quanto viene riflesso; in un secondo momento si rende conto che l’immagine riflessa non è reale; infine percepirà l’immagine riflessa come tale.
Ciò che finì per appassionare gli studiosi di cinema è proprio questa presa di coscienza della soggettività che passa primariamente per l’identificazione con un altro individuo, colui che consente materialmente l’accesso alla visione, e solo in seguito attraverso il riflesso di se stessi nello specchio. Per Metz, se lo schermo equivale allo specchio primordiale, allora l’analogia tra bambino e spettatore è data dal fatto che entrambi siano portati alla percezione da qualcuno o da qualcosa, nel primo caso, appunto, dall’adulto, nel secondo caso, invece, dal punto di vista rappresentato dalla macchina da presa.
Oltre che rappresentare un ottimo aneddoto, utilissimo per fingervi pseudo intellettuali nel caso vi troviate in difficoltà nel consueto approccio disperato del venerdì sera all’enoteca sotto casa, la teoria sopracitata è utile al discernimento delle argomentazioni esposte a inizio recensione. Attraverso i vari flashback che ci riportano a quanto narrato nell’episodio pilota, arriviamo a comprendere le reali motivazioni nascoste dietro la decisione da parte di Chip di diventare un clown, legate indissolubilmente all’affetto provato per la madre, e finalmente scopriamo il lato più umano di Penelope, ben nascosto da un’impenetrabile campana di razionalità grazie alla quale riesce a seppellire ogni scrupolo nel rivelare alla persona che ha davanti il totale disinteresse nei suoi confronti.
E’ impossibile non trovarsi frastornati di fronte alla condiscendenza di Chip dimostrata nei confronti della sua futura sposa, nonostante lei continui ripetutamente a metterlo in guardia sulla decisione di imbarcarsi in un matrimonio di comodo, costruito su un rapporto d’amore univoco. In più di un’occasione veniamo assaliti dal dubbio che Chip faccia finta di non ascoltare e, per certi versi, è proprio questo l’atteggiamento alla base del suo discorso. E’ proprio qui che la mobilitazione affettiva raggiunge il suo apice, durante il picnic che dà il nome alla puntata: Chip rappresenta quella parte di noi che, nonostante tutto, non smetterà mai di trovare il lato positivo nei momenti in cui tutto sembra remarti contro, aggrappandosi a quell’ultimo brandello di speranza, talmente piccolo da sembrare inesistente (C: “I’m sitting in Paris with the most beautiful woman in the world and she just told me she would marry me” / P: “I’m going to disappoint you, Chips” / C: “This is a good bread. A really good bread“) eppure sufficiente per non farti sprofondare in un abisso di tristezza da cui sarebbe impossibile riemergere a testa alta. Purtroppo, però, nonostante la speranza sia proverbialmente l’ultima a morire, è anche la prima a dar forma alle nostre illusioni. Una verità che, per l’ennesima volta, travolgerà il povero Chip, mettendolo di fronte all’ennesima sventura.
L’alternarsi delle due sequenze, passato e presente, riesce nell’ardua impresa di farci ridere – grazie alla vista del panino di quasi due metri mangiato su un telone in un’aiuola adiacente alla superstrada – e nel contempo farci provare un’immensa tristezza nel vedere crollare il fragile castello di carte costruito da Chip sull’ennesimo bad beginning, ulteriormente peggiorato dal finale di puntata interrotto nel momento di massima drammaticità. Chip Baskets ci pone di fronte a due aspetti relativi all’esperienza umana, comuni a noi tutti: da un lato, la continua ricerca di noi stessi, costantemente accompagnata dal duplice ruolo di nemico e alleato ricoperto dall’inesorabile trascorrere del tempo, dall’altro, la necessità di cogliere quegli sporadici aspetti positivi che la vita, nella sua imprevedibilità, ci concede, traendone il massimo vantaggio in vista di una favorevole opportunità futura che potrebbe non arrivare mai, ma nella quale varrà sempre la pena riporre le proprie speranze.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Ottima gestione dei momenti comici nonostante la drammaticità dell’episodio
  • La fuga dagli agenti insieme agli altri artisti di strada
  • Il picnic
  • Un Galifianakis da applausi 
  • Nulla

 

Episodio perfetto in tutte le sue parti, apice di un lavoro sapiente nella commistione tra comicità e dramma operato nel corso della stagione. La fiducia riposta da noi recensori nel telefilm viene infine ricompensata e noi naturalmente, non possiamo far altro che benedire.

 

Sugar Pie 1×08 0.4 milioni – 0.2 rating
Picnic 1×09 0.5 milioni – 0.2 rating

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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.

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