Doctor Who 8×04 – ListenTEMPO DI LETTURA 7 min

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“You wake up – or you think to do – and there’s someone in the dark, someone close – or you think it might be. So you sit up, turn on the light, and the room looks different at night. It ticks, cricks and breaths. And you tell yourself there’s nobody there, nobody watching, nobody listening: nobody there at all. And you very nearly believe it. You really, really try. And then…”


“Listen” è un episodio complicato. Stilisticamente ben riuscito, poetico, sussurrato, con una lente d’ingrandimento sulla storia dell’Universo e con una panoramica sul quotidiano. La trama orizzontale non è apparentemente presente, lasciando spazio ad un episodio a sé stante sulla carta, ma che in realtà rompe schemi della mitologia in maniera prepotente e leggera.
Moffat, si è capito, è fissato con alcuni temi: la paura nell’ignoto inconscio; la completa discontinuità spazio-temporale oltre che narrativa all’interno di uno stesso episodio; il wibbly wobbly timey wimey. Gli spettatori diffidenti, giustamente esigenti e con la propensione alla critica potranno individuare e denunciare tante, forse troppe, riprese di questi temi, molto freschi nella nostra memoria. Qualora si voglia essere positivi (sensazione che potrebbe prevalere dopo una seconda visione dell’episodio) allora apparirà nella nostra mente una vera e propria evoluzione dei topoi “moffattiani”.
“The Empty Child” del 2005 segnava il debutto di Moffat come sceneggiatore in un episodio di DW. L’immagine del bambino con la maschera anti-gas andava a presentare la passione dello sceneggiatore scozzese per ciò che può far paura, ma che non è spaventoso; ciò che potrebbe inquietare in un incubo, ma non far svegliare sudati di soprassalto, lasciando però un filo di inquietudine durante tutto il giorno dopo. “Mommy… Are you my mommy?” era effettivamente molto inquietante, regalando quella stessa sensazione di incapacità nel fuggire da qualcosa che si muove lentamente, come spesso capita di sognare. Nel 2006 la piccola Madame de Pompadour si ritrovava ad avere paura di qualcosa sotto il letto (toh…) ed anche lì l’immagine inquietante di un robot con una maschera, in un angolo della camera, evocava paure infantili mai del tutto sopite. Ma è con “Blink” del 2007 che avviene la svolta verso un altro tipo di paura. Dopo l’inspiegabile mix innocuo-spaventoso del bambino con la maschera, dopo il terrore di qualcosa nascosto nell’oscurità, arriva la paura di ciò che non possiamo vedere: quel senso di pericolo costante nel momento in cui voltiamo le spalle. Il non visto come pericolo si ripresenta l’anno dopo in “Silence Of The Library” dove la non-percezione visiva avviene però in un altro senso: non più l’incapacità di vedere per una diversa direzione dello sguardo, ma per la totale mancanza di luce. Il buio – grande ispiratore di paure infantili e non – o meglio l’ombra più totale, nella forma dei Vashta Nerada, si faceva portatrice di morte e sputava figure scheletriche all’interno del “guscio” di poveri malcapitati che finivano a ripetere ad oltranza le stesse ultime parole. Da citare inoltre il concetto di “corner of the eye” in “The Eleventh Hour” oltre che le misteriose figure di tutta la saga di “The Impossible Astronaut”/”Day Of The Moon” di cui si perdeva immediatamente la memoria. Ed ecco qui l’evoluzione totale: pseudo-creature di cui la stessa esistenza non è scontata, perfettamente capaci di nascondersi, come risultato di una lenta evoluzione. La tappa ultima della paura è quindi immersa nell’incertezza più totale con presenze eteree e ignote (chissà se in “Midnight” non se ne aveva avuto un preventivo incontro), più oniriche che mai.
A questi elementi paurosi si deve aggiungere l’enorme sfruttamento dell’elemento “viaggio nel tempo”. La possibilità di essere in un ristorante, dopodiché incontrare il proprio accompagnatore da bambino, o un lontano discendente nell’ultimo pianeta dell’universo, rende chiaro a cosa porta lo spostamento attraverso la quarta dimensione. E Moffat ha fatto abbondante uso di questi rapidi saliscendi (ricordiamo la piccola Amy in “The Eleventh Hour”, il pranzo di Clara in “The Time Of The Doctor“, la vita di Madame de Pompadour in “The Girl In The Fireplace”, per citarne alcuni).
Per concludere i principali punti focali della creatività di S.M., c’è da citare quello che ormai in gergo è stato battezzato “Moffat-loop”. Da un lato particolarmente affascinante, questo aspetto però tradisce in “Listen” una particolare ridondanza. Il Dottore, con il suo discorso sulla paura al piccolo Rupert ispirerà Clara a fare lo stesso discorso a sé stesso da bambino, dandogli così una filosofia di vita che lo accompagnerà per oltre 2000 anni. Dov’è la ridondanza? Bé, Clara. Clara è un bellissimo personaggio che incarna la figura della semplice ragazza capace di manovrare destini interi, come ci è stato fatto vedere. Oltretutto Jenna Coleman riesce perfettamente nella sua interpretazione. Però in un solo anno l’abbiamo vista inserirsi nella time-line del Dottore, convincerlo (convincerli) a salvare Gallifrey, sussurrare ai Time-Lord attraverso una crepa. E questo va bene, Clara diventa decisiva nella trilogia “The NameThe DayThe Time Of The Doctor“, ma renderla addirittura l’origine della paura del Dottore, forse potrebbe risultare esagerato. E pure se così non fosse (come poi forse non è), la vera fonte della ridondanza sta proprio nell’inserire questo elemento a quattro episodi dall’ultima volta in cui si era dimostrata vitale.
Ciò non va ad intaccare la bellezza della scena, forse uno dei migliori effetti sorpresa nella saga. Moffat qui si prende una delle più grandi libertà: Gallifrey più il giovanissimo Dottore. Niente sensazionalismi, ma una imponente intimità circondata da una notturna luce soffusa. Ovviamente il bambino non ci viene mostrato per niente, sono visibili solo dei lisci capelli chiari, come poi saranno quelli dell’anziano Dottore di Hartnell.
E’ strano vedere Moffat scrivere un episodio “intermedio” come faceva ai tempi di Davies, quando ancora non era showrunner. Se allora la particolarità della scrittura colpiva, all’interno della linearità di R.T.D., ora riconosciamo perfettamente lo stile che ha caratterizzato gli episodi più importanti delle ultime stagioni, se non addirittura la struttura delle stagioni stesse. Ed ecco perché se da un lato un episodio così ad effetto, in una stagione già strutturata con stessi tratti stilistici, può evocare ridondanza, dall’altro l’inserimento di un elemento così estremo nella mitologia – oltre che l’evoluzione di alcuni concetti, come detto sopra – rende più chiara la padronanza e l’omogeneità nello strutturarsi di questa stagione (che poi questo stile piaccia o no è un altro discorso).
E ora un pensiero sull’apparizione dell’antica Gallifrey. Immagino molti si saranno chiesti “ma come ci sono arrivati?”, esporrò quindi alcune considerazioni. Gallifrey è in un time-lock solo durante la Time War sui cui eventi non si può interferire; la Gallifrey post-guerra è nel pocket universe quindi dovrà essere in qualche modo trovata; la Gallifrey del passato del Dottore invece è “tranquillamente” raggiungibile. Ora la domanda è la seguente: perché lui vorrebbe mai tornare in un posto che gli potrebbe evocare tanta tristezza, sapendo quale sarà il futuro di suddetto luogo? Senza considerare che incrocerebbe la propria timeline.
Per quanto riguarda la parentesi tra Clara e Danny (vero filo conduttore dell’episodio) bisogna riconoscere che si sta introducendo il nuovo personaggio in maniera sapiente e brillante: vincente la strategia di far conoscere il personaggio in maniera progressiva (come con Mickey) senza imporlo immediatamente nell’equipaggio del Tardis (come invece accadde, più o meno, con Rory). Ovviamente è tutto da vedere quale sarà l’impatto vero e proprio del personaggio, soprattutto nell’ormai scontata futura storia con Clara. E quello sarà un vero e proprio banco di prova per la qualità delle sceneggiature. Affrontare bene una storyline romantica sarà ancora più difficile che cavarsela con paradossi, mitologie, e wibbly wobbly timey wimey stuff.

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Moffat torna a confezionare un episodio intermedio e più o meno autoconclusivo
  • Il piccolo Dottore – grandissimo colpo di scena
  • Filo conduttore con l’appuntamento tra Clara e Danny
  • Personaggio di Danny presentato in maniera originale
  • Evoluzione dei topoi tipici di Moffat
  • La battuta sui Sontaran non appena il Dottore si risveglia, esattamente come Tom Baker
  • Sequenza finale con sovrapposizione di momenti diversi
  • Flash di Jon Hurt (tra l’altro con l’immagine che avevamo scelto nella nostra recensione)
 
  • La firma di Moffat si nota anche troppo
  • Clara che interferisce nella antichissima storia del Dottore è un po’ una ridondanza vista la vicinanza con il finale della settima stagione e relativi speciali
  • Il pesce palla
  • L’imbranataggine tra Clara e Danny, soprattutto ad inizio episodio, regala cenni di ripetitività, ma niente di grave

 

Come giudicare un episodio del genere? Ancora non abbiamo modo di sapere se il suo inserimento in questa ottava stagione sarà vincente, sicuramente giudicandolo a sé stante le considerazioni sono positive, visto anche lo stile inconfondibile del miglior Doctor Who di questi quasi 10 anni. L’episodio perfetto, però, deve ancora arrivare.

 

Robots Of Sherwood 8×03 5.2 milioni – ND rating
Listen 8×04 4.8 milioni – ND rating

 

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Approda in RecenSerie nel tardo 2013 per giustificare la visione di uno spropositato numero di (inutili) serie iniziate a seguire senza criterio. Alla fine il motivo per cui recensisce è solo una sorta di mania del controllo. Continua a chiedersi se quando avrà una famiglia continuerà a occuparsi di questa pratica. Continua a chiedersi se avrà mai una famiglia occupandosi di questa pratica.
Gli piace Doctor Who.

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