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Speranza, preghiera, invocazione. Questo è il sentimento con cui uno spettatore si appresta a guardare Grey’s Anatomy. La speranza è che non ci siano un cataclisma, un disastro aereo, una morte improvvisa di un personaggio cardine dello show, la preghiera è che succeda qualcosa di sensato, l’invocazione è alla Madre Rhimes che si metta una mano sulla coscienza e che non si comporti ancora una volta come una Dea Maligna.
Rhimes si è sempre comportata come una tiranna giocando con i suoi personaggi nella maniera più brutale; non c’è nessun luogo narrativo in cui salvarsi, anzi più le sue creature sono felici, realizzate, più crolleranno nell’inferno, più sono infelici più cadranno nella depressione. Insomma Rhimes ha abituato a questo, senza se e senza ma. È lei che decide, sceglie, costruisce e distrugge.
Le ultime stagioni sono state esempio di questo portando come bandiera l’assenza totale di originalità, personaggi piatti, storyline inutili, insomma la banalità del male. Scomodando il pensiero molto più alto e profondo di Hannah Arendt; la creatrice di Grey’s Anatomy è stata una di quelle bulle che con lo scettro del potere credono di poter fare tutto. Ha preso in giro lo show, i personaggi, ma soprattutto gli spettatori, ma in questi primi quattro episodi qualcosa sembrava essere cambiato, sembrava che ci fosse una briciolo di coerenza narrativa là dove non ce ne era stata da molto tempo. Dopo aver visto “Danger Zone” si comprende chiaramente che era solo una pura casualità, solo uno specchietto per le allodole; il quinto episodio si svolge in una zona pericolosa come dice chiaramente il titolo e come si comprende chiaramente dal fatto che lo spettatore si trova in un accampamento militare – territorio ben conosciuto dal pubblico di Grey’s Anatomy, abituato da sempre a una battaglia perenne, pronto a nascondersi in trincea.
Le ultime stagioni sono state esempio di questo portando come bandiera l’assenza totale di originalità, personaggi piatti, storyline inutili, insomma la banalità del male. Scomodando il pensiero molto più alto e profondo di Hannah Arendt; la creatrice di Grey’s Anatomy è stata una di quelle bulle che con lo scettro del potere credono di poter fare tutto. Ha preso in giro lo show, i personaggi, ma soprattutto gli spettatori, ma in questi primi quattro episodi qualcosa sembrava essere cambiato, sembrava che ci fosse una briciolo di coerenza narrativa là dove non ce ne era stata da molto tempo. Dopo aver visto “Danger Zone” si comprende chiaramente che era solo una pura casualità, solo uno specchietto per le allodole; il quinto episodio si svolge in una zona pericolosa come dice chiaramente il titolo e come si comprende chiaramente dal fatto che lo spettatore si trova in un accampamento militare – territorio ben conosciuto dal pubblico di Grey’s Anatomy, abituato da sempre a una battaglia perenne, pronto a nascondersi in trincea.
La puntata è una sorta di bottle episode, incentrato su quattro personaggi Nathan Riggs, Owen Hunt, Megan Hunt, Teddy Altman, sui rapporti tra di essi e sul loro futuro, puntata che si regge su una fastidiosa altalena tra passato e presente che tenta di spiegare perché tali personaggi siano così, cosa li faccia comportare in un tale modo. “Danger Zone” è l’ennesimo episodio che saluta un ruolo (Riggs), annuncia la fine di un rapporto (quello tra Owen e Amelia, tra Riggs e Meredith con il messaggio d’addio) e dà inizio a nuove trame (Owen-Teddy).
Così si scopre come era prima il rapporto tra Nathan e Megan, i nei di quella relazione fatta di tradimenti accettati e compresi ma fatta anche d’amore. Dall’altra parte emerge l’intransigenza di Owen, sempre uguale a se stessa, il suo essere fratello incombente, terrorizzato dagli sbagli della sorella. Come nel passato si infilava nella sua vita senza rispetto alcuno (i flashback lo dimostrano), caratteristica di chi ama troppo, nello stesso modo ora vorrebbe deviare l’itinerario di Megan, decidere lui dove farla vivere (mentre lei con Riggs e Farouk desidera trasferirsi in California, il fratello vorrebbe tenerla vicina). È chiaro, i due sono diversi ma tale diversità è narrata in maniera superficiale, non spiegata veramente o meglio ricercata in un libro già letto (lei pronta a comprendere gli errori perché sono umani, lui rigido moralista, lei sempre sincera con se stessa, lui ingabbiato nei suoi stessi valori). Se Megan sogna di vivere vicino al mare respirando l’infinito, lui vorrebbe abitare accanto a lei e ai genitori, ciascuno con la propria famiglia, ma c’è un problema però, il loro padre è morto e Owen non ha figli.
Questo scontro monta a poco a poco come in un circolo vizioso: tutto inizia con un viaggio in macchina in cui Owen e Megan ridono, scherzano, cantano e si raccontano. Solo dopo esser scesi dal veicolo e aver giocato in un vecchio parco giochi i due riportano alla luce vicende del passato anche molto dolorose (il momento in cui lei non ha avuto il lavoro, l’incidente di cui è rimasta vittima), emergono così i veri problemi, le vere ferite (il doppio tradimento di Megan e di Nathan, l’atteggiamento supponente di Owen nei confronti della sorella, la rigidità fastidiosa di Hunt per formazione, carattere e cultura) ma ancora una volta non si penetra nel profondo ma si galleggia.
Se da una parte Owen è metafora di decostruzione (la lite con Megan e la fine del matrimonio con Amelia), dall’altra Riggs è l’emblema della costruzione, inizia a conoscere il piccolo Farouk e consolida il legame con Megan – celebrato dal momento in cui c’è l’abbraccio dei tre personaggi di fronte all’Oceano pronti per la nuova vita -; Rhimes ha liquidato il sostituto del Dottor Stranamore – che ha abbandonato lo show – lasciando l’amaro in bocca al pubblico che sperava in una nuova storia da favola.
Si percepisce ancora una scarsa originalità, un vuoto di senso e una mancanza di ricerca dei “perché”; quel finale strappalacrime punta all’emotività senza che però ci sia di base un vero interessamento antropologico. Ciò che sconvolge è che “Danger Zone” racconta in quaranta minuti ciò che avrebbe potuto raccontare in venti, cerca delle spiegazioni ai comportamenti e alle scelte senza preoccuparsene veramente – come se l’unica preoccupazione fosse arrivare e superare il numero di stagioni di E.R. (15) -, cammina lentamente verso una meta sconosciuta e appena ne vede la luce vi corre incontro con faciloneria. La stessa faciloneria e svogliatezza che caratterizzano la scelta finale di Owen. Dopo aver imparato la lezione della sorella capisce che non può vivere una farsa ma deve respirare a fondo e pensare al futuro (che ha probabilmente un nome, Teddy). Così l’uomo, sicuro, ripulito dalla pesantezza della relazione sua e di Amelia, pronto a respirare aria nuova è solo uno dei tanti protagonisti di un dramma che con molta probabilità non ha più tanta ragione di esistere.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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“Danger Zone” è un episodio con poco senso, pericoloso per gli spettatori memori di uno show che un tempo aveva una storia da raccontare e che oggi è desideroso di andare avanti in qualunque modo, anche senza una storia.
Ain’t That A Kick In The Head 14×04 | 8.06 milioni – 2.3 rating |
Danger Zone 14×05 | 7.6 milioni – 1.8 rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.