Lovecraft Country 1×05 – Strange CaseTEMPO DI LETTURA 6 min

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Christina: “You’re right. We wanted to be you and you… You wanna be us. But you misunderstood William’s invitation.  It wasn’t just to be white. It was an invitation to do whatever the fuck you want.

 

Nella puntata probabilmente più gore e macabra vista fino ad adesso, Lovecraft Country prende spunto dalla storia dei suoi protagonisti per “cambiare pelle”, per mettere in scena il suo “Strange Case” forse più estremo, liberando i suoi punti di forza e cogliendo l’occasione per poter fare quello che veramente vuole. Eppure, proprio come per Ruby, la sua si rivela un’evoluzione solo di facciata, solo superficiale, visto che interiormente la propria natura di serie assurda, bizzarra e tanto allegorica rimane, con tutti i suoi incredibili pregi, ma anche con tutti i suoi evidenti limiti.
“Strange Case” è allora prima di tutto un episodio di conferme, nel bene e nel male. Di come il fantasy, l’horror e la fantascienza, vengono usati da Misha Green & co. per raccontare il reale, gli orrori (appunto) della società moderna, ma soprattutto le paure e le pulsioni che insidiano universalmente l’essere umano. Una pratica di cui Jordan Peele è maestro, ma che appartiene a tutti i più grandi autori della tradizione (superfluo, naturalmente, citare colui che dà il nome alla serie). Ciò che stupisce è la nonchalance, l’assoluta disinvoltura e naturalezza con cui viene affrontata, cioè senza che si avverta mai quella sensazione di eccessiva inverosimiglianza. Simile in qualche maniera a quanto faceva, per esempio, una serie come Penny Dreadful, equivalente nel giocare col genere e con la letteratura (ma che probabilmente nella sua ambientazione ben più datata presentava meno incisività in tal senso), oltre che con lo stesso pesante difetto: la trama, alla fine della fiera, è solo un pretesto.  Si registrano due punti di svolta, certo, ma sia che William e Christina rivelino di essere la stessa persona, sia che Atticus riesca a decifrare la lingua di Adamo, sono entrambi privi di implicazioni nell’immediato. Al massimo li si può trovare nel passato (per i primi due), o nel futuro (per il secondo). Permane, invece, in generale, una certa confusione, se non disinteresse nel costruire una narrazione se non lineare quantomeno unitaria. A tal proposito si può notare, stavolta in negativo, la grande differenza con un’altra serie recente, Watchmen, che pur  affrontando simili tematiche, pur “giocando” anch’essa con il genere, presentava una cura sicuramente più precisa (ed oltremodo più efficace) di questi aspetti. La  “vaghezza” di scrittura adottata da Lovecraft sarà allora chiaramente voluta, tanto da farne la sua principale e personale prerogativa, ma al tempo stesso non può che affievolire il gusto della fruizione spettatoriale, che comunque resta di tutto rispetto, anzi.
Basti pensare alla vorticosa quanto potente parabola di Ruby, che esplode e si consuma praticamente nell’arco di un solo episodio. Nel suo abbandonarsi all’invidia della condizione privilegiata dei bianchi, toccando nel processo tutti i punti più tragici e significativi (da quelli sociali, come il lavoro, a quelli umani, come il semplice camminare per strada); nel suo diventare come “loro”, accettando così facendo lo status quo, vedi l’atteggiamento di superiorità con cui tratta la neo-assunta/rivale; per arrivare infine al disgusto delle loro più infime ipocrisie, ben incarnate dal personaggio del viscido capo (di facciata, di aperta mentalità, ma nel profondo di un razzismo anche peggiore); finendo con lo spietato (vista la violenza della sua vendetta) orgoglio della propria condizione di nera e donna, in un mondo razzista quanto sessista, perseguito nella catartica rivalsa conclusiva. Proprio in quest’ultima parte, inoltre, giocano un ruolo cruciale i “bianchissimi” Christina e William, che da paternalistici e approfittatori, con quell’invito a fare “whatever the fuck you want”, si rivelano sorprendentemente tanto sinceri (“we wanted to be you“) e rivoluzionari, mantenendosi sempre su quell’inquietante (quanto affascinante) velo di imprevedibile ambiguità che circonda la storia e tutti i suoi protagonisti, e che appunto fanno di Lovecraft Country una visione perlomeno mai banale.
“Strange Case” è allora soprattutto un episodio sul cambiamento, sulle metamorfosi di ovidiana memoria, ma che non a caso vanno di pari passo con un altro concetto fondamentale, quello della libertà, affrontato in tutte le sue forme più controverse, coerentemente alla “grigia” poetica della serie. Di questo passaggio da bruco a farfalla, dello spingersi fuori da un bozzolo chiuso tra giudizi (esterni quanto interni), timori reconditi e accettazione di se stessi, sono infatti interessati anche tutti gli altri protagonisti. Una trasformazione in cui la passione e la sessualità la fanno da padrone. Se infatti è attraverso di esse, nella loro forma più estrema e insana, che si attua la “vendetta del tacco a spillo” di Ruby nei riguardi del bianco oppressore, decisamente differente è il progressivo avvicinamento tra Atticus e Leti, che raggiungono qui un ulteriore e fondamentale livello. La passione che si scatena tra loro è probabilmente la più “pura”, intima e romantica, non tanto per come avviene, ma per ciò che comporta, ossia il riconoscersi a vicenda. Due anime spezzate da un passato (terribile) che li perseguita e di cui sono stati perlopiù vittime passive, che insieme riescono a “liberare” i propri blocchi emotivi e a superare insieme le continue divergenze, le rispettive e viscerali paure, vedi lo scontro sulla lingua di Adamo. Ancor più rilevante è il percorso di Montrose. La figura appunto più “grigia” della serie, con tutte le azioni deprecabili di cui si è fin qui macchiato, trova (chissà quanto temporaneamente) il proprio posto nel coraggio di una comunità emarginata ma capace di scendere felicemente a patti col proprio io, a differenza sua, che invece l’ha combattuto per tutta la vita. E in un meraviglioso contrasto la sua “liberazione” si consuma in un’esplosione di colori e musica, nella scena più bella e rappresentativa della puntata.

I took my baby on a Saturday bang| Boy is that girl with you?| Yes we’re one and the same| Now I believe in miracles| And a miracle has happened tonight| But, if you’re thinkin’ about my baby| It don’t matter if you’re black or white| They print my message in the Saturday Sun
I had to tell them I ain’t second to none| And I told about equality and it’s true| Either you’re wrong or you’re right! But, if you’re thinkin’ about my baby! It don’t matter if you’re black or white

(Michael Jackson, Black Or White, 1991)

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • La parabola michaeljacksoniana di Ruby, che indecisa tra black or white“, naturalmente non si poteva che concludere con “because I’m bad” 
  • Gore e splatter a non finire, effetti speciali inquietanti quanto meravigliosamente realizzati: “Thriller”  
  • Il ballo “liberatorio” di Montrose: “Man in the mirror
  • La rivelazione su Christina e William: “Billie Jean
  • Atticus e Leti avanti, insieme, nonostante tutto: “You are not alone”  
  • In certe battute di Ruby, specie in ambito professionale, si scade un po’ troppo nel retorico
  • La trama continua a non esistere

 

Nel suo episodio fin qui più gotico, estremo, letterario e allegorico, Lovecraft Country eleva tutti i suoi punti di forza, evidenziando al tempo stesso, però, anche i suoi evidenti limiti: a meno di incredibili svolte nei prossimi episodi, molto probabilmente non sarà la serie memorabile che ci si aspettava, eppure resta un piacere da guardare.

 

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