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“This is the reason for all my work. This is the reason why I created you. This… and you…are the future of humanity. Inside this craft are a number of frozen human embryos. I’ve modified your body so you’re capable of bringing them to term once you land on Kepler-22b. You will raise these children to be atheists. The new world that you start won’t have the same problems that ended our world here on Earth. You are humanity’s last hope. You are the new Mother of humanity. Save us.”
Raised By Wolves, come ampiamente esposto anche nelle precedenti recensioni, continua ad attestarsi su di un alto livello di cripticità narrativa. Una cripticità che si concentra attorno al fine ultimo narrativo della serie. Posta in essere la necessità di una serie di riuscire a coinvolgere ed intrattenere il proprio pubblico, uno degli elementi fondamentali per un prodotto di un certo livello è sicuramente quello di avere una trama con una nitida direzione verso la quale accompagnare i propri spettatori. La serie di HBO Max, al momento, non sembra avere a cuore questo fondamentale elemento tanto da variare, per l’ennesima volta, nuovamente soggetto narrativo.
I primi tre episodi rilasciati davano spazio a due ben precise trame: Campion ed i suoi fratelli e sorelle a la loro difficoltosa vita da superstiti; Sue e Marcus, la loro immedesimazione nei mitriaci e la loro ricerca.
L’attenzione si sposta nuovamente andando a poggiarsi su Mother e sulla sua “creazione”, spostando quindi per l’ennesima volta dall’inizio della serie il focus. Il leit motiv continua ad essere quello del senso materno (inizialmente Mother, Tempest, l’animale brutalmente ucciso nello scorso episodio e qui nuovamente Mother) unitamente ad una sopravvivenza drammatizzata della storia. Tuttavia la sensazione è quella che a cadenza episodica venga portata avanti una porzione di storia, lasciando in disparte tutto il resto. Ciò di cui Raised By Wolves ha bisogno come l’aria è di un chiaro obbiettivo di trama ed una maggior fluidità nella narrazione, una necessità che potrebbe ben presto essere soddisfatta se l’incontro tra la spedizione di mitriaci e l’accampamento di Mother e Father verrà gestito nella maniera corretta senza trasformarlo nell’ennesimo orpello di una storia di cui si fatica a comprendere la composizione.
Le sottotrame, quindi, riescono a ricongiungersi, sicuramente un bene per la storia che ci guadagna in semplicità d’esposizione e tempo a disposizione per poter affrontare altre tematiche che lentamente sembrano venir utilizzate per comporre la mitologia di Raised By Wolves. Da annotare come fattore positivo, sicuramente l’intera sequenza dei flashback/visioni di Mother: lo spettatore ha modo tramite questa sequenza, che copre poco più di dieci minuti, di conoscere più da vicino il percorso formativo e di trasformazione dell’androide. Catturata, trasfigurata dal punto di vista del software e successivamente resa utile ad una specifica causa, quella di diventare la nuova madre dell’umanità con il chiaro scopo di creare un nuovo insediamento umano (su Kepler 22b) senza che questi possa venir influenzato in alcun modo dalla religione o da qualsiasi tipo di credo. Un piano che, avendo rapito i bambini dell’arca dei mitriaci per unirli a Campion, sta lentamente sgretolandosi sotto gli occhi impotenti dei due androidi-sorveglianti.
La serie, in questa sequenza dedicata alla nascita di Mother (che sorge dalle ceneri di un droide negromante), si dedica ad un intimismo raro, particolareggiato e molto introspettivo: nei dialoghi tra Campion Sturges e Mother si può intravedere tutto l’amore che il creatore prova per la propria creazione, un sentimento che allontana quest’ultima dal suo essere una pura e semplice macchina, avvicinandola piuttosto ad una sorta di compagna di vita con cui Campiong Sturges sta condividendo parte delle proprie avventure. Un sentimento forte, che trascende la basilare differenza tra i due (umano lui, androide lei) e che li avvicina nello scopo ultimo per cui il creatore ha programmato la macchina.
Raised By Wolves si dedica a questa sequenza con grande interesse, suscitandone a sua volta nello spettatore che tuttavia non può fare a meno che chiedersi come mai questa narrazione così particolareggiata vada a sfumare nel (quasi) nulla cosmico di altre sequenze totalmente abbandonate a se stesse. Si prenda ad esempio il ritrovamento del prigioniero nella sezione dell’arca e delle visioni completamente casuali di Marcus/Caleb che sembrano inficiarne la sanità (oltre che la stabilità) mentale.
La serie non deficita per quanto riguarda le tematiche narrative trattata: la lotta fede vs scienza, soprattutto se ambientata in un contesto narrativo post-apocalittico come questo, non può che risultare interessante e magnetica dal punto di vista dell’intrattenimento. E non si tratta nemmeno di un problema di qualità, si parla pur sempre di HBO. Il vero problema è il minutaggio ampiamente sprecato nel tentare di filosofeggiare attorno a questioni che potrebbero essere gestite in maniera molto più rapida, concedendo spazio a sequenze (come quelle riguardanti la creazione di Mother, per esempio) decisamente di maggior impatto rispetto, giusto per fare un esempio, ad i funghi trovati da Campion e Co. oppure all’improponibile losca figura che fugge come se nulla fosse nonostante fosse tenuta saldamente sotto controllo da un manipolo di soldati. All’interno di una grotta con una sola via d’uscita.
I primi tre episodi rilasciati davano spazio a due ben precise trame: Campion ed i suoi fratelli e sorelle a la loro difficoltosa vita da superstiti; Sue e Marcus, la loro immedesimazione nei mitriaci e la loro ricerca.
L’attenzione si sposta nuovamente andando a poggiarsi su Mother e sulla sua “creazione”, spostando quindi per l’ennesima volta dall’inizio della serie il focus. Il leit motiv continua ad essere quello del senso materno (inizialmente Mother, Tempest, l’animale brutalmente ucciso nello scorso episodio e qui nuovamente Mother) unitamente ad una sopravvivenza drammatizzata della storia. Tuttavia la sensazione è quella che a cadenza episodica venga portata avanti una porzione di storia, lasciando in disparte tutto il resto. Ciò di cui Raised By Wolves ha bisogno come l’aria è di un chiaro obbiettivo di trama ed una maggior fluidità nella narrazione, una necessità che potrebbe ben presto essere soddisfatta se l’incontro tra la spedizione di mitriaci e l’accampamento di Mother e Father verrà gestito nella maniera corretta senza trasformarlo nell’ennesimo orpello di una storia di cui si fatica a comprendere la composizione.
Le sottotrame, quindi, riescono a ricongiungersi, sicuramente un bene per la storia che ci guadagna in semplicità d’esposizione e tempo a disposizione per poter affrontare altre tematiche che lentamente sembrano venir utilizzate per comporre la mitologia di Raised By Wolves. Da annotare come fattore positivo, sicuramente l’intera sequenza dei flashback/visioni di Mother: lo spettatore ha modo tramite questa sequenza, che copre poco più di dieci minuti, di conoscere più da vicino il percorso formativo e di trasformazione dell’androide. Catturata, trasfigurata dal punto di vista del software e successivamente resa utile ad una specifica causa, quella di diventare la nuova madre dell’umanità con il chiaro scopo di creare un nuovo insediamento umano (su Kepler 22b) senza che questi possa venir influenzato in alcun modo dalla religione o da qualsiasi tipo di credo. Un piano che, avendo rapito i bambini dell’arca dei mitriaci per unirli a Campion, sta lentamente sgretolandosi sotto gli occhi impotenti dei due androidi-sorveglianti.
La serie, in questa sequenza dedicata alla nascita di Mother (che sorge dalle ceneri di un droide negromante), si dedica ad un intimismo raro, particolareggiato e molto introspettivo: nei dialoghi tra Campion Sturges e Mother si può intravedere tutto l’amore che il creatore prova per la propria creazione, un sentimento che allontana quest’ultima dal suo essere una pura e semplice macchina, avvicinandola piuttosto ad una sorta di compagna di vita con cui Campiong Sturges sta condividendo parte delle proprie avventure. Un sentimento forte, che trascende la basilare differenza tra i due (umano lui, androide lei) e che li avvicina nello scopo ultimo per cui il creatore ha programmato la macchina.
Raised By Wolves si dedica a questa sequenza con grande interesse, suscitandone a sua volta nello spettatore che tuttavia non può fare a meno che chiedersi come mai questa narrazione così particolareggiata vada a sfumare nel (quasi) nulla cosmico di altre sequenze totalmente abbandonate a se stesse. Si prenda ad esempio il ritrovamento del prigioniero nella sezione dell’arca e delle visioni completamente casuali di Marcus/Caleb che sembrano inficiarne la sanità (oltre che la stabilità) mentale.
La serie non deficita per quanto riguarda le tematiche narrative trattata: la lotta fede vs scienza, soprattutto se ambientata in un contesto narrativo post-apocalittico come questo, non può che risultare interessante e magnetica dal punto di vista dell’intrattenimento. E non si tratta nemmeno di un problema di qualità, si parla pur sempre di HBO. Il vero problema è il minutaggio ampiamente sprecato nel tentare di filosofeggiare attorno a questioni che potrebbero essere gestite in maniera molto più rapida, concedendo spazio a sequenze (come quelle riguardanti la creazione di Mother, per esempio) decisamente di maggior impatto rispetto, giusto per fare un esempio, ad i funghi trovati da Campion e Co. oppure all’improponibile losca figura che fugge come se nulla fosse nonostante fosse tenuta saldamente sotto controllo da un manipolo di soldati. All’interno di una grotta con una sola via d’uscita.
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Raised By Wolves dimostra grande padronanza delle tematiche, ma nei dettagli narrativi e nella gestione del minutaggio sembra sciogliersi come neve al Sole.
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Conosciuto ai più come Aldo Raine detto L'Apache è vincitore del premio Oscar Luigi Scalfaro e più volte candidato al Golden Goal.
Avrebbe potuto cambiare il Mondo. Avrebbe potuto risollevare le sorti dell'umana stirpe. Avrebbe potuto risanare il debito pubblico. Ha preferito unirsi al team di RecenSerie per dar libero sfogo alle sue frustrazioni. L'unico uomo con la licenza polemica.