Come evidenziato negli ultimi decenni di cinema e televisione, molto spesso l’horror non va preso troppo sul serio. Si dice questo perché tendenzialmente, come per una commedia spicciola, l’obiettivo della pellicola o della serie non è quello di essere realistica al 100% e nemmeno perfetta a livello di sceneggiatura: l’unico obiettivo è fare paura ed intrattenere. In tal senso va visto anche American Horror Stories.
In un format che ricorda molto Into The Dark, lo spin-off di Murphy e Falchuk sta piano piano impostando il tono della narrazione evidenziando la preferenza per un certo divertissement piuttosto che per la creazione di una storyline complicata. E d’altronde, con soli 40-45 minuti a disposizione, non c’è molto spazio per lavorare sulla profondità dei personaggi, quindi Murphy e Falchuk hanno deciso di potenziare il lato horror lasciando ampio spazio a banalità, frasi eclatanti e situazioni che si susseguono senza apparenti conseguenze. E va benissimo così.
UN HORROR DEGLI ANNI ’90
A differenza di “Rubber (Wo)Man” che era volutamente autoreferenziale con la prima stagione di American Horror Stories, “Drive In” invece nasce da ispirazioni decisamente più classiche e cinematografiche. Guardandolo non si potrà infatti non pensare ad uno dei tanti Scream, non tanto per l’analogia con il serial killer (che non c’è), quanto piuttosto per quel modo di fare horror tanto caro ad una certa decade.
La passione adolescenziale tra fidanzati, quel focus non indifferente sulla verginità e sulla metateatralità tipica di Scream sono infatti molto evidenti anche in questo terzo episodio e sono anche una componente fondamentale della trama visto che è proprio intorno a questi elementi che viene costruito l’intero script. Non si cerca di ripresentare easter eggs presenti nella mitologia della serie originale, piuttosto si mira a rivisitare qualche vecchia idea con una pennellata di vintage e qualche trovata nuova (vedasi il finale). La priorità alla fine è quella di intrattenere e “Drive In” lo fa piuttosto bene, conscio delle proprie caratteristiche.
UNO SCRIPT DEGLI ANNI ’00
Le conseguenze, queste sconosciute.
Nel cercare di riproporre queste caratteristiche di un genere di film horror, Manny Coto, lo sceneggiatore della puntata, si concede sviste a più riprese. Anche se, forse, più che parlare di sviste sarebbe meglio etichettarle come svarioni. Svarioni voluti e calcolati per intrattenere ingenuamente uno spettatore che va semplicemente tenuto incollato allo schermo per 40 minuti, nulla più. Sarebbe sbagliato etichettare negativamente questo tipo di sceneggiatura caciarosa e grezza perché è frutto di una scrittura volutamente inadempiente a diversi canoni e totalmente mirata al divertimento (oltre che limitata dal minutaggio).
È quindi normale non assistere ad un rimprovero o ad un qualsiasi tipo di conseguenza famigliare dopo che Kelley distrugge la macchina di Chad tentando di sfuggire agli “zombie”. Così come, pur con tutte le ingenuità del caso, i due protagonisti continuano morbosamente a cercare di perdere la verginità invece che piangere e commemorare gli amici morti nella carneficina al drive in. Si, è palesemente un buco di sceneggiatura enorme ma quanto conta e quanto dev’essere valutato in un episodio che volutamente mette in secondo piano tutte le regole del buon senso? Appunto…
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
|
|
Per essere un episodio che non vuole essere preso sul serio, “Drive In” fa la sua porca figura regalando 40 minuti di puro divertissement. Raggiungere un Thank o un Bless Them All però richiede un po’ più di lavoro.
Quanto ti è piaciuta la puntata?
1
Nessun voto per ora
Tags:
Fondatore di Recenserie sin dalla sua fondazione, si dice che la sua età sia compresa tra i 29 ed i 39 anni. È una figura losca che va in giro con la maschera dei Bloody Beetroots, non crede nella democrazia, odia Instagram, non tollera le virgole fuori posto e adora il prosciutto crudo ed il grana. Spesso vomita quando è ubriaco.