“Homosexuals are central to the nature order of things. And you will be a totem to that. They think we bleed differently, but we’re all the same. And they will see the blood. There’s a war that’s coming. It will fix some things.“
Si riparte. L’undicesima stagione di American Horror Story prende fortunatamente le distanze da quella mezza cagata dalla deludente “AHS: Double Feature” e si sposta nella New York degli anni Ottanta, dove la comunità omosessuale deve affrontare costantemente i pregiudizi legati alla propria sessualità e, come se non fosse già abbastanza, anche quelli legati all’AIDS (inizialmente denominato proprio GRID – Gay Related Immune Deficiency).
Ah sì, c’è anche un bestione muto con l’amore per le catene e gli indumenti di pelle che terrorizza la gente a Central Park – che in parte sembra voler rievocare il rubber man della prima stagione – e il solito serial killer che non può mai mancare in una serie ambientata negli anni Ottanta in America.
CHI BEN COMINCIA… BEN COMINCIA
Questi primi due episodi, seguendo il consueto modus operandi di Murphy e Falchuk, risultano molto promettenti: il parco personaggi come sempre non indugia quando si tratta di stravaganza e figure grottesche, riuscendo immediatamente ad attirare a sé lo spettatore fin dai primissimi minuti; le atmosfere horror vengono qui accantonate – almeno per il momento – prediligendo maggiormente la componente thriller-crime allo scopo di approfondire il senso di impotenza e terrore diffusi all’interno della comunità gay. Negli episodi successivi si tornerà probabilmente in direzione di un horror più “consono” rispetto al contesto in questione, virando verso splatter e gore, ma per il momento il tutto sembra funzionare molto bene sollevando come al solito non pochi timori in merito alla quasi fisiologica tendenza dei due autori di mandare tutto in vacca quando si tratta di tirare le fila della narrazione.
L’enfasi sembra essere posta sulla lentezza. Il primo episodio, “Something’s Coming“, inizia lentamente, scaraventando letteralmente sullo schermo un modesto numero di personaggi, mostrando tutte le diverse connessioni che legano i diversi character, ma impiegando più tempo per mettersi in moto realmente. L’ambientazione, la New York City del 1981, è il cosiddetto “usato sicuro” che mai stancherà il pubblico e che rappresenta terreno incredibilmente fertile per tutte le storie a base di assassini seriali e teorie del complotto.
A parte la cold open dedicata al pilota d’aerei/amante della pelle trovato decapitato giù al molo, la maggior parte del minutaggio viene dedicato alla costruzione del personaggio di Patrick (Russell Tovey) e del partner Gino (Joe Mantello). Quest’ultimo è un giornalista apertamente gay che scrive per il The Native, mentre Patrick è un detective del NYPD (per ovvi motivi non apertamente gay) che subisce forte pressioni dal suo capo per non scavare troppo a fondo in una storia che entrambi stanno seguendo. Insomma, cliché di genere che piovono a palate, ma che stavolta vengono analizzati dal punto di vista della comunità gay e dei suoi rappresentanti, nell’oramai riconoscibile stile di Murphy e Falchuk, producendo un risultato tutto sommato piacevole da guardare.
AMERICAN PSYCHOLOGICAL THRILLER STORY
C’è ancora un po’ della solita arguzia alla American Horror Story nei dialoghi. Timori e contraddizioni in seno ai protagonisti vengono immediatamente a galla, il tema del conflitto appare costante ed emerge soprattutto all’interno della coppia, per così dire protagonista, composta dal detective Patrick Read e dal giornalista Gino Barelli.
Joe Mantello, sicuramente la migliore tra le new entry, ha molto tempo sullo schermo nel corso dei primi due episodi. Gino è un personaggio molto importante, ideato per essere quello per il quale il pubblico deve fare il tifo. Non a caso, infatti, la maggior parte degli eventi dello show ruotano in una certa misura sempre attorno alla sua figura, oscurando in parte il meno ispirato Patrick di Russell Tovey. Personaggio che comunque, almeno stando alle parole della ex moglie (Leslie Grossman), sembrerebbe nascondere un lato oscuro ancora sconosciuto a Gino.
Questi primi due episodi, chiaramente introduttivi, servono più che altro ad approfondire le dinamiche che intercorrono tra i vari personaggi e, come già detto, per aiutare lo spettatore a calarsi all’interno del clima di terrore in cui vivono costantemente i protagonisti.
Questo fattore ha portato però ad un uso centellinato della violenza, più di una volta gestita off-screen, quasi fosse un horror per famiglie. L’impressione è che, nonostante le occasioni per mostrare la consueta violenza estrema e indiscriminata siano ben presenti, si sia deciso di optare per una messa in scena più soft, quasi a voler dare un taglio più psicologico alla stagione. Un cambio di direzione che, innanzitutto, non può che essere apprezzato dopo il buco nell’acqua fatto con “Double Feature” e che, almeno finora, sembra aver giovato allo show.
Si tratta naturalmente di sogni e speranze che, come spesso accade nella vita, difficilmente si realizzano, ma chissà, magari sarà proprio l’undicesimo anno quello buono.
ZACHARY L’IMPALATORE
Fra le fitte trame della narrazione, tra un serial killer dalla voce dolce e delicata e un Zachary Quinto che si diverte a “impalare” modelli con appositi sgabelli lubrificati, diventando ufficialmente un punto di riferimento per tutti gli attori di Hollywood per quanto concerne il personaggio “uomo viscido e sadico con quantomeno discutibili inclinazioni sessuali”, c’è anche tempo per la già menzionata teoria del complotto relativa alla creazione in laboratorio e diffusione del virus dell’HIV da parte del governo americano. O quantomeno così sembrerebbe.
Questa porzione di trama vede come protagonista la dottoressa Hannah Wells (Billie Lourd), personaggio poco approfondito in questi due episodi, ma che sicuramente assumerà un ruolo molto più centrale nelle prossime settimane. Un discorso che vale anche per Fran – non a caso le due vedranno incrociarsi le proprie strade – e che probabilmente porterà ad un focus maggiore sui personaggi femminili nelle prossime due puntate (eh sì, quest’anno sono due puntate a botta ogni settimana).
Ultima nota: nessun essere umano in pieno possesso delle sue facoltà mentali avrebbe mai risposto “Okay, where?” all’invito telefonico fatto dal Sam di Zackary Quinto alla sua ignara vittima Stewart. E se il fatto che la chiamata provenisse da un telefono pubblico, in piena notte, e che lo sconosciuto dall’altro lato improvvisamente si metta ad offrire droga e sesso dopo cinque secondi netti di conversazione, non fossero motivi già sufficienti per riagganciare la cornetta, si dia un ascolto attento alla inquietante voce di Zachary Quinto. Non si sentivano voci così tremendamente “da villain” dai tempi di Jafar.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Dal punto di vista della mera creatività, questa undicesima stagione ha il potenziale per essere una delle più interessanti di American Horror Story, e il dinamico duo Ryan Murphy/Brad Falchuk ha riunito qui personalità molto specifiche per raccontare questa storia in questo particolare contesto storico. Elemento che evidenzia una maggiore ampiezza tematica del prodotto e soprattutto ancora molta passione, qualità ammirevole dopo undici anni di storie horror dalle ottime premesse e da altrettanto disastrosi finali.
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.