Winning Time: The Rise Of The Laker Dynasty 1×04 – Who The F**k Is Jack McKinneyTEMPO DI LETTURA 6 min

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Recensione 1x04 Winning TimeQuesto quarto episodio di Winning Time riprende poco dopo i tragici eventi avvenuti nel finale del terzo, con il funerale di Vic Weiss a dare il via alla narrazione, e il conseguente rifiuto di Tarkanian alla proposta di allenare i Los Angeles Lakers. Questo, naturalmente, porterà la dirigenza in tutt’altra direzione, verso la seconda scelta Jack McKinney, ai tempi vice allenatore dei Portland Trail Blazers. Sarà sotto il suo controllo che i Los Angeles Lakers, in ritiro a Palm Springs, inizieranno ad imparare un nuovo modo di giocare a basket. Un grandissimo cambiamento nel modo in cui la maggior parte dei giocatori è abituata a giocare fin dall’infanzia e che, prevedibilmente, porterà a duri confronti, lotte fisiche e verbali e continui disaccordi sullo stile di McKinney, in particolare per quanto riguarda la figura di Kareem Abdul-Jabbar.
Le altre storyline dell’episodio mostrano invece, da una parte, la continua lotta di Jerry Buss con gli aspetti prettamente finanziari legati al possesso di un vero e proprio franchise NBA, mentre la Showtime Era dei Lakers inizia a prendere lentamente forma, e dall’altra gli altrettanto incalzanti problemi familiari del personaggio relativi alla sua poca attitudine nel rivestire il ruolo di padre, marito o, più genericamente, di family man.

HBO, QUASI SEMPRE UN SICUREZZA


HBO è stata la rete che più di tutte, soprattutto a cavallo tra anni Novanta e Duemila, ha rivoluzionato la serialità televisiva contemporanea, imponendo un nuovo modello produttivo, distributivo e soprattutto creativo, quello della cable tv, capace di offrire al pubblico del piccolo schermo prodotti che nulla avevano da invidiare a quelli cinematografici. Basti pensare a serie come I Soprano, Oz o Sex And The City, oramai divenute veri e propri mostri sacri del mondo della televisione, e ancora oggi validissime proprio grazie a questa maturità intrinseca che ai tempi rivoluzionò il modo di concepire la serialità televisiva, regalando allo spettatore uno spettacolo più adulto, spesso fatto di violenza, sessualità e linguaggio forte, mai filtrato, ma senza mai sfociare nella volgarità o nel cattivo gusto.
Naturalmente, quando nacque questa nuova tipologia di prodotto, i cosiddetti “prestige drama“, non si trattò di inserire all’interno della narrazione violenza casuale e linguaggio forte decontestualizzato, bensì di imitare il modello narrativo e produttivo dell’industria cinematografica in tutto il suo splendore.
Winning Time non si discosta poi molto da questa classificazione, tenendo naturalmente le dovute distanze (almeno per il momento) dai mostri sacri precedentemente citati, regalando al suo pubblico un’ora settimanale di nostalgia degli anni ’70, tra location, costumi e scenic prop che letteralmente catapultano lo spettatore all’interno della narrazione: una storia condita da una scrittura sempre accattivante, in grado di polarizzare l’attenzione di chi guarda a prescindere che si tratti di un appassionato del basket o del classico spettatore occasionale, nonostante si tratti di un drama molto romanzato e che spesso si concede più d’una licenza poetica.
Un’epopea in grado di spaziare dalla tragedia a toni decisamente più comedy, raccontando con passione e reverenziale rispetto una storia fatta di icone sportive oramai intoccabili e personalità decisamente fuori dall’ordinario e caricandola di un alone di sacralità e devozione tale da rendere quasi epici i suoi protagonisti. Elemento che non solo rende lo show più appetibile per il suo pubblico – il guilty pleasure della tamarrìa televisiva – ma che sicuramente aiuta ad allontanare eventuali lungaggini o momenti altrimenti fin troppo seriosi per essere affrontati in una serie TV (almeno in teoria) rivolta a qualsivoglia pubblico e non soltanto ai fan accaniti di basket ed NBA.

IN BILICO TRA FINZIONE E REALTÀ


Quattro episodi andati in onda e il livello di questo Winning Time: The Rise Of The Lakers Dynasty sembra voler rimanere stabile. Non una sorpresa, questo è certo. A prescindere dalla aspettative sempre altissime riposte nei confronti di HBO, era chiaro fin da subito che ci si trovasse di fronte ad un prodotto sopra la media, deciso a stupire con il suo stile unico e a colpire lo spettatore con il giusto mix tra drammi la sua pungente ironia.
Naturalmente, occorre non porsi troppe domande in merito a quanto messo in scena, bensì limitarsi a rimanere sospesi tra realtà e finzione scenica, godendosi le vicende in tutte le sue sfumature, sia che si tratti di realtà “vera” o realtà romanzata.
Ad esempio, Jack McKinney era il problema o la soluzione per i problemi di coaching dei Lakers? Kareem Abdul-Jabbar era davvero così stronzo nei confronti dell’ultimo arrivato Magic Johnson? O ancora, è stata davvero Jeanie la mente alla base delle Laker Girls? Trattandosi di un ritiro a porte chiuse, si può tranquillamente affermare che in merito ad eventuali diatribe tra giocatori e allenatori, tattiche e scelte dirigenziali ben poco di ciò che è avvenuto a Palm Springs può essere provato al cento per cento.
Per il resto, parrebbe che McKinney fosse benvoluto dalla squadra fin dall’inizio. Nel libro da cui la serie trae ispirazione, l’autore afferma infatti che McKinney è stato subito accolto calorosamente dai suoi giocatori. L’allenatore andava inoltre d’accordo con Magic Johnson perché capì fin da subito il valore di un playmaker di quella stazza, guadagnandosi inoltre il rispetto di Kareem Abdul-Jabbar per il suo modo di confrontarsi e dare consigli in merito al suo stile di gioco, cosa non comune tra le grandi personalità della NBA dell’epoca.
Inoltre, in questo episodio, Abdul-Jabbar, anche se goliardicamente, individua in Johnson il suo rookie (termine che sta per principiante, matricola) personale da prendere di mira. Apparentemente, è tradizione NBA, almeno per i veterani, tormentare simpaticamente i nuovi arrivati. E Johnson non fece eccezione, costretto (come lo stesso Johnson ha ammesso nel documentario Kareem: Minority Of One) a portare ad Abdul-Jabbar succo d’arancia appena spremuto e un giornale ogni mattina durante il campo di addestramento. Queste, infatti, le sue parole: “I was such a Kareem freak. I mean, I loved Kareem before I actually came to the Lakers. So when I got to the Lakers they said you’re going to be Kareem’s rookie, and I said: great! I went over to Kareem and asked him what do you need. He says: I’d like two Gatorades after every break in practice, and I want you to get my newspaper and have it at my door every morning“.
Per concludere, anche la decisione di dipingere Jeanie come la mente alla base della creazione delle Lakers Girl, si configura come puro e semplice espediente narrativo, mosso dall’intento di evidenziare il contesto familiare in cui la giovane ragazza è cresciuta (tra le innumerevoli conquiste “amorose” di Jerry Buss) a causa dello stile di vita sregolato del padre e regalando al personaggio un modo di voltare pagina che fosse anche vantaggioso all’interno del discorso “Showtime Era” costruito all’interno di questo quarto episodio.

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Gli anni ’70 resi sempre ottimamente
  • Mix sapiente tra comedy e drama
  • Sempre in bilico tra finzione e realtà
  • Il Jerry Buss di John C. Reilly sempre perfetto
  • Si tratta di uno show tranquillamente godibile anche per i non addetti ai lavori, ma sicuramente si tratta di un fattore determinante in termini di ascolti

 

Winning Time non è il tipo di programma che puoi guardare passivamente. I suoi ritmi vertiginosi e il mix di elementi che piegano la normale categorizzazione di genere si combinano per creare una serie da cui è difficile distogliere lo sguardo. Non un banale layup dunque, ma una potente schiacciata in grado di stupire il suo pubblico con un sapiente mix tra comedy e drama, proponendo un’origin story, quella di una delle più iconiche dinastie della NBA, piena di nostalgia ma anche di amore nei confronti dei suoi protagonisti.

 

 

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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.

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