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“My name is Clara, and I am you. If you found your way here, it must mean we are more alike than you know. Heck, if you squint your eyes, maybe I am you. I am Clara. I’m creative, really determined. Sometimes I’m scared. And one time… well, one time I was swallowed up by the dark.”
Il quinto episodio di Dispatches from Elsewhere rappresenta la prima, vera svolta della stagione, sia per quanto riguarda la conoscenza della mitologia dietro la trama che procede settimana dopo settimana, sia per lo sviluppo dei personaggi.
Le tanto attese risposte riguardano l’identità di Clara, il motivo della sua importanza e la catena di eventi che l’hanno portata a incontrare il Jejune Institute. Dalla backstory scritta sulle pareti di una camera e visibile solo con una lampada UV viene fuori l’immagine di una ragazzina geniale, creativa, entusiasta, capace davvero di cambiare il mondo intorno a sé solleticando l’immaginazione e il senso di meraviglia delle persone, trascinandole fuori dalle loro esistenze grigie e monotone per mezzo di uno dei più potenti strumenti che la mente umana abbia mai creato: l’arte. Un’arte libera da qualsiasi propaganda o mercificazione, scaturita tanto dal senso di insoddisfazione per il proprio ambiente tipico dei giovani quanto dall’afflato altruistico di condividere questa esperienza, e la speranza e la gioia che ne derivano, con gli altri. Peccato solo che, come spesso accade nel mondo, ci sia anche gente che vede nel talento un’opportunità per arricchirsi, e così avviene l’incontro/scontro tra Clara e Octavio Coleman, tra l’ingenuità e l’innocenza della gioventù e la spregiudicatezza e l’avarizia dell’età adulta, matura ma disillusa. La ragazzina rifiuta l’offerta del miliardario, e quello per tutta risposta la fa rapire (e il rapimento viene mostrato con una sequenza animata, tratto distintivo della serie che nel precedente episodio era mancato).
Per quanto Fishtown sia mostrato con i tipici caratteri del classico sobborgo americano di qualche decennio fa, esso diventa anche potente metafora della società contemporanea che aliena e che omologa, che opprime con le sue ansie e che spegne la capacità degli individui di sognare una vita migliore o anche solo diversa. La stessa situazione che sperimentano, seppur in modo diverso, Simone e Peter. “Clara” è anche il loro episodio, non solo quello dell’omonima eroina, perché è qui che i due compiono scelte decisive e perentorie. Peter, in particolare, si ribella a un lavoro tedioso e spersonalizzante (nonché vagamente distopico) prendendo per la prima volta da chissà quanto tempo la propria vita in mano e inserendo in tutte le playlist dei clienti una canzone dei Beach Boys, “Good Vibrations”, che qui simboleggia il coraggio di uscire fuori dagli schemi, dalla routine, dal sentiero già tracciato, per spingersi nei territori inesplorati dell’ignoto che può spaventare ma può anche nascondere nuove canzoni, nuovi film, nuove opere d’arte, nuovi amici, nuove esperienze di vita. La misura di quanto quell’impiego non lo stimolasse appare evidente se si pensa che i discorsi del datore di lavoro, filtrati attraverso il punto di vista di Peter, per lo spettatore si riducono a una sequenza ripetitiva di “work” e “work stuff“, una versione più raffinata ma proprio per questo più efficace del classico “bla bla bla” che si usa per indicare un chiacchiericcio senza valore. Ma la ciliegina sulla torta è rappresentata dal fatto che, proprio perché non bada alle parole del suo capo, Peter prende la decisione di dimettersi solo per scoprire che era già stato licenziato, ma non se n’era accorto: così, a conti fatti il licenziamento sarebbe una decisione subita da Peter, ma per la percezione che ne ha l’uomo si tratta invece di una scelta attiva e coraggiosa. Al di là di queste sfumature, per Peter abbandonare il vecchio lavoro significa prendere finalmente le redini della propria vita… e anche rimanere disoccupato chissà per quanto, ma queste sono quisquilie.
Più sottile è il discorso su Simone, che non arriva a una frattura così netta e drammatica ma apre anch’ella gli occhi e realizza di aver trasformato una passione di vita, l’arte, in una monotona routine, l’insegnamento. D’altronde è giusto così: il cambiamento non deve necessariamente arrivare come un uragano o un terremoto, può anche verificarsi nei modi più strani e impensabili, come insegna la storia del professore di Simone che ha deciso di abbandonare la biologia e passare allo studio dell’arte dopo aver capito di non voler più essere perennemente bagnato e puzzare di pesce. Ecco la Divina Noncuranza predicata da Clara: un atteggiamento leggero ma non superficiale nei confronti della vita, una consapevolezza della fluidità dell’esistenza in cui non esistono mai ruoli fissi e definitivi, ma si può sempre cambiare idea. L’importante è seguire strade che facciano stare in pace e armonia con se stessi.
La stessa lezione di vita attende Fredwynn e Janice, benché la loro condizione sia leggermente diversa. A intrappolare questi due personaggi non è un lavoro poco gratificante o monotono: per la donna, il problema è la malattia del marito, che la intrappola in un limbo esistenziale fatto di speranze ma anche di rinunce; per l’uomo, la difficoltà sta nell’aprirsi alla vita e al rapporto con gli altri senza vedere dietro ogni cosa una sfida da affrontare o un puzzle da risolvere. E se per Simone e per Peter il cammino è già iniziato e sembra a buon punto, per gli altri due membri del quartetto la strada sembra molto più in salita.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Completata la presentazione dei protagonisti, Dispatches from Elsewhere rinuncia in parte alla sua cripticità per raccontare la storia di Clara, ma le rivelazioni al riguardo, più che appagare il senso di curiosità dei personaggi o degli spettatori, servono soprattutto a innescare in Peter, in Simone, in Janice e in Fredwynn un processo che li migliorerà come persone.
Fredwynn 1×04 | 0.28 milioni – 0.1 rating |
Clara 1×05 | 0.21 milioni – 0.1 rating |
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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.
Buonasera, ho curato l’edizione italiana. Sia i dialoghi che la direzione del doppiaggio. Le criticità della serie, molto bene inquadrate da lei, piano piano si sono rivelate la carta vincente. Ho amato molto alcuni episodi.
Vale la pena vedere il documentario The institute.
Mi piacerebbe che vedesse anche la versione italiana.
Grazie
Chiara Colizzi
La ringrazio per il commento. Fa sempre piacere riceverne uno (anche se purtroppo abbiamo lettori “timidi” che commentano poco), se poi arriva da un’addetta ai lavori è ancora più gradito.
Ha detto bene, questa è una serie che si finisce per amare: è geniale, è visionaria, è profonda, è toccante, fa sorridere, fa riflettere, tocca il cuore. Spesso seguo serie o film che stimolano solo il mio lato emotivo o il mio gusto estetico o la mia parte razionale, questa invece è un’esperienza che riguarda tutti e tre. Se penso che la prossima settimana andrà in onda negli USA l’ultimo episodio ho già il magone, ma dopotutto una storia è bella anche perché ha un finale, no?
Posso solo immaginare quanto sia stato stimolante ed emozionante lavorare su questo prodotto, come ha fatto lei. E spero che approdando su Prime Video anche da noi questa serie possa essere scoperta e apprezzata da quanta più gente possibile.
Sicuramente mi cimenterò in una seconda visione con la versione italiana.