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Dispatches From Elsewhere 1×10 – The BoyTEMPO DI LETTURA 7 min

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È risaputo che scrivere un finale non è mai facile. Ci sono serie televisive che possono vantare episodi conclusivi semplicemente perfetti, inattaccabili da qualsiasi critica: un esempio fra tanti è “Person To Person” di Mad Men. Poi ci sono quei prodotti che hanno finali orrendi che sarebbe stato meglio non vedere mai, anche se spesso la loro scarsa qualità deriva da scelte discutibili dei precedenti episodi o addirittura delle precedenti stagioni: anche qui viene subito in mente un esempio piuttosto famoso e anche recente, “The Iron Throne” di Game Of Thrones, una delle cose più brutte e deludenti mai partorite da mente umana.
E poi c’è la categoria delle serie televisive più o meno di alta qualità che hanno dato vita a puntate finali che tuttora, a distanza di anni dalla fine della messa in onda, continuano ad alimentare discussioni, diatribe, nei casi più gravi guerre civili nei fandom. I Soprano, Lost, Twin Peaks: c’è chi ha voluto chiudere il sipario con un enigmatico schermo nero, chi non ha voluto dare tutte le spiegazioni e tutti i chiarimenti desiderati dai fan, chi ha semplicemente intrapreso una strada inaspettata e non ha dato agli spettatori ciò che essi, a torto o a ragione, volevano. Al di là dei giudizi che si possono esprimere su questi singoli finali, bisogna riconoscere il coraggio degli autori che invece di andare sul sicuro decidono, con risultati più o meno apprezzabili, di uscire fuori dalla via già tracciata, di sperimentare, di stupire. Anche a costo di deludere, perché la delusione è parte fondamentale della vita.

“I was a selfish, self-centered, entitled, spoiled guy who lost his way. No victim, no villain. Just me and my choices.”

Tutta questa introduzione è stata resa obbligatoria dal fatto che anche la prima stagione di Dispatches From Elsewhere si è chiusa in un modo difficile da metabolizzare, e se il prodotto avesse avuto almeno la metà del successo degli esempi succitati a quest’ora il web sarebbe pieno di discussioni al riguardo. Poco importa che “The Boy” sia ufficialmente un season finale: la serie, è stato sempre detto, ha un’impostazione antologica e quindi, in caso di rinnovo, la seconda stagione tratterebbe vicende e personaggi nuovi, circostanza che rende l’episodio qui recensito un vero e proprio finale. Un finale assolutamente anticonvenzionale, che di nuovo sconvolge le aspettative dello spettatore facendo intraprendere alla storia l’ennesima direzione inaspettata, eppure, se ci si pensa bene, perfettamente in linea con quella sovrapposizione continua tra narrazione e metanarrazione, tra finzione e realtà, tra arte e vita che è stata il vero fil rouge delle precedenti nove puntate.
Con una scelta tanto ardita quanto piena di rischi, Jason Segel mette totalmente da parte la storia fittizia di Peter e di Simone, di Janice e di Fredwynn, di Clara e di Lee, negando allo spettatore qualsiasi informazione sul loro destino ultimo, e invece pone se stesso al centro della scena. Attenzione: non se stesso nei panni di Peter, personaggio immaginario con la sua storia, le sue passioni, i suoi sogni e i suoi difetti, ma se stesso come Jason Segel, attore e prima ancora uomo. Ne viene fuori un autoritratto in chiaroscuro, fatto di luci ma soprattutto di ombre, in cui Segel si muove tra amara confessione e ironico auto-esame, racconta i problemi con l’alcol, ammette di aver spesso accettato parti artisticamente oscene solo per i soldi. Insomma, roba di ordinaria amministrazione nel mondo patinato dello spettacolo, abilmente sviscerata da tante opere, una su tutte l’intelligente BoJack Horseman.
Ciò che colpisce in “The Boy” è il modo in cui questi problemi vengono portati sullo schermo: l’ex-Marshall Eriksen crea un caleidoscopio di piani narrativi che si intersecano e si confondono, passando dalla parabola in bianco e nero del ragazzo-clown ai dialoghi tra il vero Segel e Eve Lindley, l’interprete di Simone che ha l’onore di leggere in anteprima la sceneggiatura di Dispatches From Elsewhere, dalla riproposizione nel mondo “reale” del “gioco” di Clara alle sequenze finali che coinvolgono l’intero cast, la troupe e persino gente da casa, e non manca nemmeno un ultimo monologo di un carismatico Richard E. Grant.
“The Boy” diventa l’ennesimo, gigantesco inno al coraggio di afferrare le redini della propria vita, di affrontare il cambiamento anche quando esso spaventa, di non perdere mai di vista le proprie passioni e di non lasciare che il grigiore esistenziale, la routine, il denaro, il successo, gli ostacoli lungo il cammino le intacchino; ma soprattutto, ricorda agli spettatori che la vita non è un viaggio solitario (Aristotele avrebbe detto che l’uomo è zôon politikòn, “animale sociale”) e che per cambiare davvero bisogna relazionarsi con gli altri. E, ancora più importante, entrambe le storie messe in piedi da Jason Segel, quella fittizia della sceneggiatura di Dispatches from Elsewhere e quella “reale” in cui il protagonista è lui stesso, insegnano che quel cambiamento non è esclusivo di persone straordinarie, dei VIP di Hollywood, degli attori che riescono a raggiungere la vetta del successo, ma è un’esperienza che ognuno può vivere.
Certo, non tutto ciò che viene mostrato sullo schermo è perfettamente riuscito. Sicuramente, si poteva concedere a Peter, a Simone, a Janice e a Fredwynn (non ai loro attori, attenzione, perché quelli ci sono tutti!) un’ultima occasione per comparire sulla scena, non certo per far sapere dove saranno tra altri 10 anni ma perché lo spettatore meritava l’occasione di dare un ultimo saluto a personaggi a cui si è inevitabilmente affezionato; senza contare il fatto che il percorso di Fredwynn, salvato in extremis dalla pazzia, rimane un po’ in bilico, senza una conclusione definitivamente lieta, lasciando solo intendere che l’uomo possa aver trovato la propria strada grazie all’amicizia e all’empatia col prossimo, senza dover ancora fuggire dalla realtà.
Inoltre, emerge una certa tendenza di Segel a mettere preventivamente le mani avanti per proteggersi già in partenza da eventuali critiche: basti pensare alla battuta di Sally Field sul fatto che l’ultimo episodio sia troppo autoreferenziale, o alle accuse di eccessivo vittimismo da parte di Eve Lindley, l’interprete di Simone. In una serie che ha sempre fatto del non detto, del suggerito, dell’intuibile i propri cavalli di battaglia, l’autore avrebbe potuto lasciare allo spettatore il compito di intuire che non c’è mai stato un intento auto-apologetico o giustificazionista nella propria opera.
Ma anche così va bene.

“But what else has our story taught us, my friends? Surely historians will have their opinions, but mine well, mine is simple. It seems to me that our story taught us that the answer to change lies not in a game or a missing girl or a clown-faced boy. Change comes when we find one another. For once we have found each other, the energy of our collective spirits can take flight, and the world around us begins to change. We’re so convinced of our separateness, but what lies within us is all drawn from the same source. The water in here is the same as the water in there. But the real lesson is when we realize that perhaps the containers, too, are made from the same stuff. It is true, if we limit ourselves to our tiny mind instruments, that you are you, but perhaps if we let our subtler tools take the lead, we may glimpse the truth, even if only for a moment. There is no you. And there is no me. There is only… We!”

 

THUMBS UP THUMBS DOWN
  • Jason Segel nei panni di… Jason Segel!
  • I piani della metanarrazione che si intrecciano
  • La morale della storia
  • L’ultimo monologo di Richard E. Grant
  • Peter, Simone, Janice e Fredwynn completamente messi da parte
  • La tendenza di Jason Segel a mettere le mani avanti

 

Qualcuno odierà questo finale di stagione (di serie?), qualcuno lo amerà, qualcuno lo riterrà troppo pretenzioso, qualcun altro apprezzerà le buone intenzioni di Jason Segel ma farà notare anche i suoi limiti. Però il coraggio di porre un suggello di questo tipo a una serie già di per sé molto particolare come Dispatches from Elsewhere va riconosciuto.

 

The Creator 1×09 0.21 milioni – 0.1 rating
The Boy 1×10 0.19 milioni – 0.1 rating

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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.

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