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Con il viaggio a Washington avvenuto nel terzo episodio, la miniserie di casa HBO è arrivata a un punto di svolta ben evidente: un sempre crescente antisemitismo si è ormai insinuato nella società statunitense ed è ormai troppo tardi per tornare indietro.
La ricollocazione delle famiglie ebree nell’entroterra americano, tramite l’Homestead Act, è solo il primo passo di una lunga escalation che sicuramente si avrà modo di vedere nel sesto ed ultimo episodio dello show creato da David Simon e Ed Burns. In questo complicato quadro socio-politico, la famiglia Levin è la rappresentazione perfetta del momento storico, seppur immaginario, raccontato dalla serie, visto le diverse fazioni presenti all’interno, come nella società americana, con le divisioni tra Bess e Evelyn; il contrasto tra il rabbino Bengelsdorf ed Herman; senza dimenticare il primogenito dei Levin, circuito dalla zia e dal rabbino. In tutto questo il ridotto screen time dedicato ad Alvin, tornato negli Stati Uniti dopo la disavventura canadese che gli è costata una gamba, è sicuramente un peccato, per un personaggio interessante che avrebbe ancora molto da dire, ma riesce a collegarsi alla trama principale solo per le accuse di comunismo e l’FBI che lo sorveglia, mentre il resto non risulta essere importante per lo sviluppo della storia.
La società americana durante la seconda guerra mondiale, seppur con esiti diversi visto la natura ucronica del prodotto seriale, viene rappresentata al meglio, con un contesto storico ricostruito alla perfezione, ma non ci aspettava nulla di diverso da una serie di David Simon e prodotta da HBO, visto che tutto il comparto tecnico è indubbiamente ottimo. Se si volesse descrivere i fatti in poche parole, basterebbe citare la nota banalità del male in chiave arendtiana, visto il totale asservimento senza scrupoli degli americani alle politiche razziste di Lindbergh: resta da capire se il rabbino Bengelsdorf sia veramente convinto di quello che faccia o sia volontariamente cieco, pur di essere un uomo potente e vicino al Presidente degli Stati Uniti d’America.
Se si escludono le violenze al comizio di Witchell, la narrazione ha il pregio di raccontare il crescente odio antisemita tramite brevi dialoghi, piccoli dettagli e gesti quotidiani, senza grandi eventi eclatanti, per un rancore atavico che si insinua piano piano all’interno delle persone e delle famiglie, permeando la società intera, ma senza che vi siano avvenimenti da far gridare allo scandalo, riuscendo ad arrivare allo spettatore che puntata dopo puntata realizza come la società sia virando verso il razzismo e la xenofobia.
Tuttavia nonostante le evidenti qualità dello show, la lunghissima durata degli episodi, ben sessanta minuti, unita a una narrazione che avanza molto lentamente ha reso “The Plot Against America” una serie difficile da guardare per gli spettatori, sicuramente un prodotto seriale molto impegnativo che non si addice a un pubblico mainstream, ma questo non è necessariamente un male. Sarà interessante capire come nell’ultimo episodio verranno chiuse le diverse storyline e soprattutto fino a che punto arriverà l’intolleranza verso gli ebrei, visto il crescente peso politico della destra all’interno del paese.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Un buon episodio per la miniserie di casa HBO, che conferma tutti i punti di forza già evidenti nei precedenti appuntamenti, tuttavia, a una sola puntata dal termine, non era difficile immaginarsi un ritmo narrativo più sostenuto, ma così non è stato. Quindi, nonostante i diversi elementi positivi riscontrati, la valutazione non và oltre una sufficienza piena.
Part 4 1×04 | ND milioni – ND rating |
Part 5 1×05 | ND milioni – ND rating |
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Venera due antiche divinità: Sergio Leone e Gian Maria Volontè.
Lostiano intransigente, zerocalcariano, il suo spirito guida è un mix tra Alessandro Barbero e Franco Battiato.