Ormai è chiaro quanto American Horror Story sia il parco giochi preferito da Ryan Murphy. Proprio per questa ragione, lo spettatore ha imparato a non porsi troppe domande e a godersi lo spettacolo.
La verità è che anche American Horror Story: NYC è disordinato: tra personaggi eccentrici (e numerosi), immagini esplicite e sessualmente provocatorie e richiami alla cultura pop, la serie perde leggermente la sua coesione narrativa, anche se il risultato non è affatto male.
JUST THE BEGINNING
Per la prima volta da diverse stagioni, dopo già quattro episodi non si ha la sensazione che qualcosa inizi ad andare a rotoli. I veri fan di Ryan Murphy ormai sono consapevoli che, nonostante le buonissime premesse, spesso gli epiloghi delle stagioni sembrano perdere completamente la strada, deludendo le aspettative generate nel corso degli episodi precedenti.
Questa volta, sia in “Smoke Signals” che continuando con “Black Out”, si percepisce la sensazione di essere solo all’inizio di un mistero molto più complesso ancora da scoprire. Questo stupisce non poco, dato che solitamente la storia procede a ritmi serrati, con la tendenza a concedere al pubblico le risposte che tanto attende.
I misteri centrali della stagione sono gli omicidi e la malattia, anche se proprio in queste due puntate viene ripetutamente messo il focus su come il virus in questione sia stato ipoteticamente messo in atto da una organo governativo. La malattia, infatti, potrebbe essere stata creata e diffusa volutamente dagli scienziati nazisti per il governo degli Stati Uniti.
I TRE VILLAINS
Per quanto riguarda l’aspetto più prettamente “crime” relativo ai diversi omicidi, in questi due episodi il detective Patrick, che sembrava concentrato sulla risoluzione del caso, viene mostrato sotto una luce diversa, svelando un lato oscuro che potrebbe cambiare le carte in tavola.
Quello che è ormai dato per certo è che ci siano ben tre villains all’opera. Sia in “Smoke Signals” che in “Black Out”, il Sam interpretato in modo credibile e perturbante da Zachary Quinto è stato presentato (nonostante potesse sembrare il principale indiziato) come un sadico predatore sessuale, anziché un assassino.
Quinto riesce a dare il giusto tocco ad un personaggio così inquietante che sembra di imbattersi nuovamente in Sylar, il villain per eccellenza di Heroes.
Big Daddy continua ad avere una funzione di presagio di morte, una sorta di angelo del male: non muove un dito quando il prigioniero di Sam scappa dalla gabbia, mentre occasionalmente interviene per dare fuoco al locale gay o per attaccare il detective Patrick a Central Park.
Il ruolo più definito è certamente quello di Mr. Whitley, interpretato da Jeff Hiller. Hiller incarna alla perfezione il Mai-Tai Killer, costruendo una tensione mai scontata fatta di sguardi, di movimenti impacciati ma efficaci, in particolar modo durante l’inseguimento in ospedale, probabilmente la scena migliore e più adrenalinica della stagione finora.
Mr. Whitley potrebbe sembrare il solito serial killer nonostante sembra esserci un senso di dovere e sacrificio dietro le sue scelte: sta conducendo una “resa dei conti”, come sussurra al telefono con il detective Patrick.
IL RIFERIMENTO A “CRUISING”
L’oscurità è elemento centrale, soprattuto in “Black Out”. Quest’oscurità non è solo letterale, ma anche figurativa.
La regista dell’episodio in questione, Jennifer Lynch (già regista di alcuni episodi di The Watcher e Dahmer) utilizza molti elementi tipici del genere noir, con rimandi evidenti ai thriller polizieschi degli anni ‘80. Il richiamo più chiaro é quello relativo a “Cruising”, film del 1980 diretto da William Friedkin, in cui un detective inizia a indagare su un serial killer che abborda omosessuali nei bar per poi stuprarli e mutilarne i corpi.
L’oscurità di cui è permeato l’episodio serve come emblema di una paura ricorrente per un “qualcosa che sta arrivando”, ma anche per un senso di decadenza morale. Emblema di questo concetto è il party-orgia durante il black-out: la ricerca del piacere (e del dolore) attraverso sesso e droga all’interno della comunità gay della New York degli anni ‘80 funge da mezzo per far capire come i contorni della moralità diventino sempre più sfocati, rendendo lo spettatore incapace di distinguere dove finisce il bene e dove comincia il male.
Il riferimento a “Cruising” è definito e centrato. Ryan Murphy e il suo team di registi/sceneggiatori sta facendo un ottimo lavoro nel riadattare un materiale che necessitava di essere un po’ svecchiato. Il tema e lo stile servono da trampolino di lancio per sviluppare la creatività dello show.
American Horror Story, come suggerisce il titolo, è volutamente legato alla storia americana, dalla quale Murphy ha preso spunto per creare il suo mix di verità e finzione.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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American Horror Story: NYC si conferma per ora con uno degli incipit meglio riusciti di tutte le stagioni. Il mistero regge mentre la storyline relativa al virus non si è ancora sviluppata abbastanza da poter giudicare il suo impatto sulla trama orizzontale. Il cast è valido, l’atmosfera è ben costruita grazie a scelte registiche azzeccate, rendendo “Smoke Signals” e “Black Out” due ottimi episodi.
Se continua così, il risultato sarà lodevole. Non resta che sperare che Murphy non rovini tutto nel corso dei prossimi episodi.
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.