Miroslav: “Beh… come si smette di essere un portafortuna?”
Miu: “Come si smette di essere un gangster?“
Nella composizione dell’inquadratura che vede Miu sigillare l’accordo con Mr. Chiang e, quindi di riflesso, la salvezza della figlia di Mother Hulda, c’è tutto il cinema di Nicolas Winding Refn, l’uso delle luci, dei colori, dell’ambiente, il suo lavoro maniacale sulla messa in scena in relazione ai suoi personaggi e al loro mondo.
Dopo essere stata, nei primi tre episodi, un oggetto esterno, alieno, nei confronti di tutto ciò che la circondava, specie nell’arredamento kitsch della dimora di Rosella, adesso Miu, finalmente libera e padrona del proprio destino (e addirittura di quello degli altri), è perfettamente inserita nel contesto, in un tutt’uno di rinnovata consapevolezza e soprattutto di forte emancipazione.
AGENTE MIU 007
“Dalla Russia Con Amore“ del 1963 è tra i film più celebri e ricordati della saga di James Bond, il secondo dell’era Sean Connery, e per quanto naturalmente la serie di Refn possa apparire oltremodo distante dagli iconici spy movie britannici, da un certo punto di vista l’omaggio potrebbe anche non fermarsi esclusivamente al titolo. L’uso smodato delle lentissime panoramiche, così minuziosamente eseguite, non possono che richiamare in fondo il cinema classico.
L’estetica del regista danese, d’altronde, non è fatta di movimenti rivoluzionari, di virtuosismi tecnici, concentrandosi come detto maggiormente sulla cura della scena, proprio come insegnava il tanto studiato e teorizzato “découpage” classico. Una rivisitazione moderna e altrettanto chiaramente personalissima, certo, a partire dalle sue motivazioni di base. Perché se in quel caso il ruolo del regista era quello di nascondersi, sacrificandosi a beneficio della storia e dei suoi personaggi, privilegiando la totale chiarezza espositiva, chiaramente Refn fa l’opposto, risaltando la sua presenza dietro la macchina da presa, lavorando soprattutto concettualmente.
È ancor più superfluo, specie negli ultimi anni di elevata sperimentazione tecnica quanto narrativa, notare poi come un simile approccio sia ancor più inusuale per una serie televisiva, che storicamente ha spesso mirato quasi ad annullare la personalità ingombrante del regista, ma per l’appunto è un discorso probabilmente già piuttosto superato ormai.
Ed ecco, forse, l’altro “omaggio” ai tempi che furono e alla memoria dell’agente segreto 007, lo si può scovare insospettabilmente proprio nella trama, o comunque in ciò che in questo show può considerarsi tale. La strada per il riscatto personale di Miu, per la certificazione della propria indipendenza e, soprattutto, del proprio “io” passa attraverso lo “scontro” col malavitoso Miroslav, che arriva direttamente dal suo oscuro passato. Da “schiava”, venduta dai suoi stessi genitori, Miu adesso addirittura vuole lavorare ed essere pagata da lui, come a dire che dopo aver dimostrato la propria “esistenza” a se stessa, adesso deve provarla al mondo intero.
Passato e presente, quindi, non si affrontano solo nell’elettrica conversazione tra i due, ma ovviamente, tornando a quanto detto in fase di presentazione, nel loro rapporto con l’angusto e poco illuminato spazio che li circonda: da una parte, il vecchio e malandato il gangster che corre da lei non appena comprende chi è; dall’altra Miu, giovane e fremente di vita e di rivalsa come non mai che, pur rintanata in un angolo, domina completamente la scena, proprio come farebbe la spia al servizio segreto di Sua Maestà.
L’ULTIMA RISATA
Adesso appare decisamente chiaro che quello di Miu e di Copenhagen Cowboy non è nient’altro che un romanzo di formazione, ma in un mondo composto dalla criminalità più terribile e spaventosa, ossia dal traffico di esseri umani, trattati come “bestie” da vere “bestie” (non così velata a tal proposito la metafora col mondo animale). Ed è sicuramente degno di nota come, nello squallore più basso e disumano possibile, Refn riesca a trovare spazio anche per la “commedia”, quasi a voler giocare su quella risata tragica che rimane tra le più sferzanti e potenti di tutte, quasi a voler rendere la sua messa in scena ancor più crudele e disturbante di quanto già non sia all’apparenza. Sì, in effetti, quasi.
Come leggere altrimenti la scena della “compravendita” di cocaina a degli inesperti e fino all’ultimo reticenti uomini d’affari, completamente lontani dal miserabile mondo senza luce di Miu, dei goffi e stralunati “alieni” ai suoi occhi, in un rovesciamento incredibile delle parti. Ancor di più, poi, lo è il “siparietto” legato a Michael, personaggio che fin dalla sua presentazione ha palesato la propria estraneità a qualsiasi mediocre concezione umana. Se possibile, in questa nuova apparizione finisce col superarsi, addirittura trasferendo la sua spasmodica ossessione per il proprio pene verso quello del figlio, cogliendo al volo la sfortunata “occasione” concessagli involontariamente da Miu, sfociando altrettanto ironicamente e a sua insaputa in quello che si può considerare tra i più banali dei cliché della psicanalisi.
Assistere a questo conciliabolo di menti illuminate intente a concepire la creazione di una sorta di “pene supremo” è probabilmente tra i momenti più assurdi e divertenti concessi dall’episodio (e sicuramente anche dalla serie stessa) e pur comprendendone naturalmente le ragioni, da un altro punto di vista è un peccato che arrivi solamente sui titoli di coda.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Si sa, NWR o lo si ama o lo si odia, in linea generale. E al quarto episodio, lo si ammira innanzitutto per l’aderenza al proprio stile, la coerenza nel suo percorso, soprattutto televisivo. Va però anche riconosciuto che rispetto a Too Old To Die Young, il prodotto stavolta è decisamente meno consistente e d’impatto, avvicinandosi molto più pericolosamente, di conseguenza, a passare inosservato.
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.