“It means you fuck people. Fuck people over. Don’t give a fuck. It means you covet and steal and burn all principles for the sake of self-interest.“
Peaky Blinders, in fondo, è sempre stato un dramma politico. Tra risse estremamente violente, guerre tra bande ed uccisioni a sangue freddo, la serie ha sempre messo in mostra un vivido interesse nei confronti delle vicende geopolitiche dell’universo narrativo in cui si muovono i membri della famiglia Shelby. E se è vero che politica e guerra viaggiano spesso a braccetto, e che questo Thomas Shelby si configura di fatto come prodotto della guerra stessa, un suo coinvolgimento con il partito fascista in queste ultime due stagioni non soltanto appare naturale giunti a questo punto, ma quasi necessario. Un coinvolgimento che naturalmente non può che essere motivato dall’intenzione di distruggerlo dall’interno.
Si tratta di una lezione di storia (molto hardcore) della durata di un’ora, durante la quale la serie mette in mostra alcuni dei suoi aspetti cardine, quali la battaglia contro il “male” come alternativa al totale nichilismo, o la presunta superiorità morale mostrata dagli appartenenti ai cosiddetti alti ranghi della società, muovendosi freneticamente all’interno della scena politica dei primi anni trenta del Novecento, tra Grande Depressione, fine del Proibizionismo e ascesa del partito fascista.
Fino a questo momento, il Thomas Shelby inserito nel contesto della campagna elettorale, non era ancora stato mostrato al pubblico. Il suo seggio in Parlamento, certo, è stato acquistato, ma non è difficile capire perché un individuo del genere potrebbe effettivamente elevarsi a figura politica di riferimento per un grande numero di lavoratori scontenti. I sostenitori del Partito Laburista di South Birmingham si bevono fino all’ultimo sorso – e come dargli torto d’altronde – dell’accorato discorso di Tommy contro King George, i tagli ai salari e la limitazione dei diritti dei lavoratori, e in qualche modo viene riportata una sorta di equilibrio morale rispetto alla feroce retorica fascista mostrata da Mosley durante il discorso avvenuto nel corso dello scorso finale di stagione.
NEW ENTRIES E RITORNI IMPORTANTI
L’ingresso di Lady Diana Mitford, compagna di Oswald Mosley, tra ostentazioni di lusso e risveglio delle coscienze, è forse uno dei più interessanti visti in questo episodio. Ricca, intelligente, indipendente. Diana è una donna in grado di nascondere, dietro una moderazione ed una pacatezza degne certo del suo ceto sociale, un’intera ideologia, cantata all’unisono insieme al futuro marito, e interamente basata sull’odio immotivato e la presunta superiorità razziale. Molto soddisfacente, a maggior ragione, l’uscita di scena di Lizzie che, umiliata in virtù della sua estraneità agli affari del marito, quantomeno risponde a tono, dissando la felice coppietta di fascisti e droppando il microfono con il più classico dei “I fucked your future husband”, lasciando i tre ai loro affari importanti.
Momento che quasi ci fa dimenticare del precedente faccia a faccia tra Tommy e Alfie Solomon. Quasi.
Nei quattro anni trascorsi da quando Alfie sparava ai gabbiani sulla costa di Margate, l’uomo è decisamente caduto in disgrazia. Il vecchio Alfie è ancora lì, nascosto dietro improvvisi scatti d’ira e farneticazioni in merito al finale della sua “opera” chiamata America. E Tommy riesce a vederlo, ad intercettarlo, regalandogli il famigerato atto finale che il character di Tom Hardy sembra cercare disperatamente. Cinque tonnellate di oppio pronte per essere distribuite a Toronto, Quebec, New York e Boston potrebbero regalare ad Alfie, e a tutta la famiglia Solomon, un’entrata rapida e decisamente consistente, ma soprattutto una personale vendetta e il tanto agognato atto finale della sua “opera”.
Una sequenza che di fatto trascura tutto al di fuori dei sue due protagonisti. Si parte con la lunga camminata di Tommy, sulle note di “Nessun Dorma” di Puccini, per poi ritrovarsi in una stanza appena illuminata, con giusto un paio di sedie e una lampada. Non serve nient’altro. Il carisma di Cillian Murphy e Tom Hardy basta a riempire la stanza, creando per l’ennesima volta un piccolo capolavoro nel capolavoro, una magia fugace già vista in passato in concomitanza dei sempre brevi, ma altrettanto intensi, scambi di idee avvenuti tra i due personaggi.
Discorso inverso può essere fatto con l’incontro tra Tommy e Jack Nelson, decisamente ambientato in una cornice ben più sfarzosa, e allo stesso modo molto meno “intimo” rispetto al vis a vis con Alfie. James Frecheville regala al pubblico un personaggio che fin da subito mostra una personalità estremamente volubile, fatta sì di professionalità e dedizione, ma anche di cinismo e risolutezza. Gli occhi quasi spenti e l’apparente incapacità di mostrare emozioni che non ruotino intorno al concetto di odio, rendono il character ancora più oscuro di quanto si potesse immaginare finora basandosi unicamente sulla sua fama. Il piano di Tommy, comunque, sembra per il momento procedere nella giusta direzione, verso l’ennesimo tentativo di infiltrazione all’interno del partito fascista con l’intento di distruggerlo, tanto violentemente quanto silenziosamente, con anche la promessa di vendere ad uncle Jack i segreti di Churchill in cambio del nulla osta per vendere il suo oppio nel suo territorio. Primo vero passo, insieme all’accordo stretto con Alfie, verso la conquista del suo trono a Boston.
L’IMPORTANZA DI TROVARSI AL CENTRO
“Well, since I’ve entered politics, I’ve learned that the line doesn’t go out from the middle to the left and the right. It goes in a circle. […] You go far enough left, eventually you’ll meet someone who’s gone far enough right to get to the same place. Working-class socialists like me, working-class nationalists like you. The result? National Socialism. And that’s me, in the middle. Just a man trying to make an honest living in a very dark world.“
In una società divisa tra destra e sinistra, Tommy decide di stare nel mezzo, cercando di creare un ponte tra le due ideologie in grado di consentirgli di sfruttare punti di forza e debolezze di entrambe così da poter condurre una vita onesta in un mondo oramai interamente dominato dall’oscurità. Così dice Tommy, sia a Laura McKee dell’IRA che all’inviato del Daily Mirror, sebbene con un tono e modi radicalmente differenti. In pubblico grande oratore e rispettabile figura politica a sostegno dei lavoratori e dei loro diritti, ma nell’ombra, tutt’altro che stimato e integerrimo gentiluomo, soprattutto quando si tratta di menare le mani insieme al fratello (strafatto) nel bel mezzo di una rissa tra camicie nere e manifestanti ebrei. E come la dipendenza da oppio di Arthur mostra il costo umano del commercio di droga, la mente tormentata di Tommy mostra invece il costo umano della guerra.
Thomas Shelby è un uomo dal passato tormentato, un individuo spaccato dal peso delle sue mille contraddizioni, dei lunghi silenzi che sopprimono le emozioni e dalle superstizioni che accompagnano da sempre il retaggio del suo popolo natio. La figlia Ruby comincia a sentire voci, disegnando figure demoniache e parlando di un “grey man” venuto per portare via lei e suo padre. Tommy però sa esattamente di chi sta parlando: uno spirito maligno nella forma del soldato prussiano dagli occhi verdi (il suo primo omicidio) ucciso dopo uno scontro violento durante il suo servizio in Francia.
Realtà e superstizione, ancora una volta, si confondono. Malattia o maledizione? In ambedue i casi il futuro degli Shelby sembra essere legato ad un tragico ed inevitabile destino, e la paura per la figlia spinge Tommy a cercare Esme, vedova gitana di John e ultima persona ad aver lanciato una maledizione sulla famiglia. Un tentativo che certo mette in evidenza la disperazione del protagonista, ma che comunque riesce a creare il giusto alone di mistero, quasi sovrannaturale, intorno ad una storia che invece si propone di raccontare, attraverso le vicende politiche di quel particolare momento storico, la perpetua ciclicità della storia e la facilità con cui odio e intolleranza riescono a diffondersi tra la gente se pronunciate dalla bocca di individui tanto carismatici quanto pericolosi. Il tutto, sempre, con la giusta dose di sangue, botte ed ignoranza.
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Come sempre Peaky Blinders rifugge alla “regola del secondo episodio”, che vede spesso le seconde puntate come noioso momento di approfondimento dopo il boom della premiere. Vuoi un po’ per la contenuta lunghezza delle stagioni, vuoi un po’ per l’incredibile qualità generale del prodotto, questa seconda puntata migliora il già ottimo lavoro compiuto nella precedente e raggiunge immediatamente quel Bless mancato di pochissimo in “Black Day“.
Nemmeno è finita, e già si sente la mancanza di questa serie.
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.