“Oklahoma v. Manfredi” conferma l’essenza dello show: uno di quei prodotti che non pretende di essere troppo profondo, ma che serve a intrattenere.
La puntata scorre tranquilla seguendo la linea delle precedenti, ad eccezione di un accoltellamento piuttosto cruento che anima un finale altrimenti piuttosto prevedibile. Questa scena non solo alza leggermente il livello di tensione, ma fa intravedere la possibilità di sviluppi più imprevedibili in futuro.
In generale, l’episodio conferma, come se ce ne fosse il bisogno, che Tulsa King sia uno show che ha scelto consciamente di non voler affrontare le sfumature drammatiche delle altre serie di Taylor Sheridan come Mayor Of Kingstown o Yellowstone, ma si vuole piuttosto proporre come un divertente mix tra mafia e western con toni leggeri, spesso proprio portati in scena dal character di Stallone.
DENTRO I BINARI DELLA PREVEDIBILITÀ
Nel suo insieme, questo terzo episodio soffre di un’eccessiva dilatazione con alcune scene inutili come quelle riguardanti il vicino di casa. Queste sequenze servono (palesemente) soltanto a rallentare il ritmo senza offrire reali contributi alla trama principale. Tuttavia, il punto di forza di Tulsa King rimane la tensione creata dal rapporto tra Dwight, Chickie e gli altri mafiosi, un gioco di potere che si fa sempre più interessante e che, ad occhio e croce a giudicare dal minutaggio concesso a questo inutile vicino di casa, potrebbe vedere degli sviluppi futuri che includono questo impiccione.
Il processo a Dwight Manfredi, oltre ad essere sicuramente la parte più interessante dell’episodio ed essere costruita su misura per far brillare Sylvester Stallone e la sua caratteristica parlantina, è anche frutto di una scrittura che rientra dentro i binari del titolo. La giuria emette un verdetto scontato che sembra un pretesto per riportare la trama in una direzione che punta chiaramente alla faida tra famiglie mafiose. Il risultato è che l’arresto e il successivo processo sono già stati risolti fin troppo facilmente, quasi a voler liquidare il cliffhanger della scorsa stagione senza dare troppo peso alla questione visto che ciò che conta sembra (giustamente) essere lo scontro orizzontale tra Dwight, Chickie, Bill Bevilaqua (interpretato da un Frank Grillo sempre ignavo) e Cal Thresher (Neal McDonough che si conferma un sempre ottimo villain).
FUORI DAI BINARI DELLA PREVEDIBILITÀ
Tra le poche cose che sorprendono di questa puntata c’è il colpo di scena finale, con Goodie che sceglie incredibilmente di rimanere dalla parte di Dwight, segna un’inversione di rotta rispetto alle aspettative, impedendo alla trama di cadere in dinamiche altrimenti prevedibili tulsakingiane. Questa scelta, insieme all’accoltellamento violento che sorprende lo spettatore soprattutto per la contrapposizione con le scene di vita quotidiana fatte di multe e di processi, garantisce una conclusione degna di nota e ricorda un po’ a tutti che si è di fronte ad uno show che parla di mafia e quindi ci può sempre scappare un morto.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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In sintesi, Oklahoma v. Manfredi prosegue nel solco di ciò che Tulsa King rappresenta: un mix tra intrattenimento senza pretese e la carica carismatica di Stallone. Il risultato è un episodio che scorre senza colpi di scena significativi, se non fosse per l’accoltellamento finale e il mancato voltafaccia di Goodie che aggiungono un pizzico di imprevedibilità.
Sebbene non sia una serie che intende rivoluzionare il genere, si dimostra efficace nell’intrattenere con il suo mix di azione, intrighi mafiosi e l’immancabile fascino di Stallone.
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Fondatore di Recenserie sin dalla sua fondazione, si dice che la sua età sia compresa tra i 29 ed i 39 anni. È una figura losca che va in giro con la maschera dei Bloody Beetroots, non crede nella democrazia, odia Instagram, non tollera le virgole fuori posto e adora il prosciutto crudo ed il grana. Spesso vomita quando è ubriaco.