È un episodio che resta ben impresso questo “Lift Us Where Suffering Cannot Reach”. Forse per il titolo lungo e poetico, o forse perché per una volta non si realizza il solito lieto fine in cui i buoni dell’Enterprise vincono e risolvono i problemi del pianeta di turno. O forse perché solleva problemi e argomenti non certi inediti ma profondi, trattati con l’eleganza del miglior Roddenberry. Confermando così l’impressione che con Strange New Worlds si sia tornati dalle parti della serie originale e di Next Generation, più che dei deludenti Discovery e Picard.
IL VALORE DEL SACRIFICIO
La trama del sesto episodio ruota attorno alla difesa del Primo Servitore, un ragazzino dalle cui sorti dipende il futuro del pianeta Majalis. Quest’ultimo è una nuova aggiunta alla già ricchissima galassia di Star Trek, uno dei soliti mondi estranei alla Federazione, espediente narrativo che ne permette l’inserimento in una serie che di fatto è prequel di tutte le altre. La novità sta nel fatto che non si tratta di un mondo completamente sconosciuto alla Federazione: Pike lo conosce bene perché ha avuto dei trascorsi con la sua rappresentante, la bella Alora.
In apparenza, “Lift Us Where Suffering Cannot Reach” sembra un copione già scritto: il Primo Servitore è in pericolo e bisogna proteggerlo. Il fatto che nella storia sia coinvolto anche il padre del ragazzo e che Pike abbia dei trascorsi con Alora non scalfiscono l’apparente semplicità dell’intreccio di base: ci si aspetta che gli eroi dell’Enterprise vincano e che il giovane ascenda al trono che gli spetta, fra applausi e festeggiamenti.
E così è. Ma il lieto fine non c’è. Perché il Primo Servitore non è un monarca: è un sacrificio. Offerto dagli abitanti di Majalis a una misteriosa e infernale macchina ideata dai loro antenati, allo scopo di garantirsi la sopravvivenza rimanendo sospesi al di sopra di una superficie infernale. In pratica, i Majalani possono continuare a vivere solo per mezzo del sacrificio di uno di loro. Una morale vagamente cristiana, se ci si fa caso, e che potrebbe essere appunto un riferimento alla religione, spesso al centro degli strali della fantascienza.
A differenza di altri episodi della serie, però, questa volta gli eroi dell’Enterprise non riescono a impedire che il sacrificio si compia. Anzi, paradossalmente fanno di tutti per fermare coloro che avrebbero potuto impedirlo, conferendo alla puntata un sapore dolceamaro che la colloca ad anni luce di distanza dal buonismo imperante in Discovery e Picard.
PIKE TRA DOVERE E PIACERE
Se i precedenti episodi hanno messo al centro, o comunque in un ruolo preminente, comprimari come Spock o Uhara o ancora La’an, “Lift Us Where Suffering Cannot Reach” riporta l’attenzione su Christopher Pike e sul dilemma che si porta dietro fin dalla fine della seconda stagione di Star Trek: Discovery.
Il destino del capitano dell’Enterprise è già stato scritto, o così sembra, ma nulla gli impedisce di accarezzare anche solo per qualche istante la possibilità di sottrarsi a una sorte così atroce. E quell’occasione è offerta da Majalis e da Alora, al cui richiamo il nostro eroe cede momentaneamente.
Non è la prima volta che un capitano di Star Trek si abbandona ad avventure galanti in una puntata, James T. Kirk ha abituato a molto peggio, ma c’è una differenza sostanziale: qui non si tratta di una scappatella inserita per dare colore all’episodio o per permettere particolari sviluppi di trama. La liaison tra Pike e Alora è una concreta, per quanto fugace, quiete in mezzo alla tempesta. Lo spettatore sa che non andrà mai in porto, sia perché altrimenti non si verificherebbe lo scenario ben noto tramite la serie classica, sia perché è ovvio che Pike non sacrificherà mai il dovere al piacere; eppure la sceneggiatura è brava a rendere solida la possibilità che lo scenario opposto si realizzi, lasciando con il fiato sospeso finché non si palesano le vere intenzioni del capitano.
Dietro la scelta di Pike, ovviamente, agisce anche il disgusto per il sacrificio del Primo Servitore, ma è indubbio che in qualsiasi caso avrebbe scelto di tornare all’Enterprise: è un capitano della Flotta Stellare, ed i capitani così agiscono.
IL DRAMMA DI ESSERE PADRE
Accanto al dilemma di Pike, se ne delineano anche due. Chi ne soffre è accomunato dal fatto di essere un padre in una condizione difficile, pronto a tutto pur di salvare la propria prole.
Il dottor M’Benga cerca in tutti i modi di porre un freno alla devastante malattia della figlioletta, ed è chiaro che questa sarà una sottotrama ricorrente nella stagione, forse anche nelle prossime; ma trova un perfetto alter ego nell’Anziano Gamal, il padre del Primo Servitore disposto a tutto per salvare il figlio dal triste destino che l’attende.
Da questi due spiriti affini ci si aspetterebbe collaborazione e invece, nonostante il dramma comune, ciò non avviene: Gamal ha la tecnologia che permetterebbe di guarire dalla cignocemia, ma non intende divulgarla all’esterno del proprio popolo. Tutt’al più può dare degli indizi, dei frammenti di informazioni a M’Benga, per aggirare la rigida regola che i Majalani si sono imposti: una flebile nota di speranza dalla quale prenderanno sicuramente le mosse le prossime azioni del dottor M’Benga.
Chiudiamo con una considerazione sul personaggio di George Kirk, che dopo essere sparito negli ultimi episodi è finalmente tornato. Peccato che la sua sia una breve comparsata che non rende giustizia al personaggio e porta a chiedersi perché inserirlo se ancora non ha ricevuto il minimo approfondimento. Forse si vuole semplicemente giocare sull’effetto nostalgia, coinvolgendo nella storia il fratello del ben più noto James T. Kirk? Si spera di no, ma col nuovo corso della saga non si sa mai.
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Finora “Lift Us Where Suffering Cannot Reach” è il miglior episodio della stagione e forse il migliore che non si vedeva da un bel po’: non particolarmente originale ma coraggioso e oscuro, specie quando si tratta di osare e negare il solito lieto fine. Che Star Trek: Strange New Worlds si stia confermando la vera erede spirituale delle vecchie serie?
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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.