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Leggere un romanzo, guardare un film, seguire una serie tv. Possono essere considerate azioni volte al puro intrattenimento, ad un sano arricchimento, ma anche azioni destinate a riempire momenti di vuoto e solitudine. Capita talvolta di imbattersi in un tipo di narrativa (letteraria, cinematografica, televisiva) che abbia al suo interno una particolare alchimia che distrugge completamente qualsiasi tipo di senso critico, per un semplice motivo: ogni elemento costituente la storia è al servizio della storia stessa. Parafrasando: il senso critico dello spettatore si annulla, nulla importa se non “vedere come va a finire”.
Chi muore, chi si salva, come ci si salva. L’immersione è totale e tale immersione avviene grazie ad un impeccabile sviluppo tecnico, ed ecco il paradosso: verso tale impianto tecnico (scrittura, recitazione, fotografia, regia, luci,lo schiavo che porta il caffè) difficilmente viene rivolta l’attenzione. Un po’ come con Harry Potter, quando decine e decine di pagine di ogni capitolo diventavano un unico fiume in piena che travolgeva il lettore, qualunque ora fosse, non perché si trovasse davanti a Letteratura con la maiuscola, ma perché la buona scrittura era secondaria di fronte agli eventi narrati. Non era importante il percorso, ma il traguardo, motivo per cui il percorso veniva percorso (ehm…) alla velocità della luce, si arrivava al traguardo e si diceva “però, è stato un bel percorso”. E tutto questo prima di Netflix che ha fatto del termine “maratona” la sua ragione primaria di esistenza.
E non a caso Stranger Things, più di altre opere della celebre piattaforma streaming, divide gli episodi in capitoli (come da titolo).
Si è detto più volte: i season finale di Netflix (o Amazon) non vanno considerati come i season finale di canali televisivi. Dove nel secondo caso il finale rappresenta un appuntamento importante con cui catturare l’attenzione nei minuti conclusivi per aprire nuovi archi narrativi, nel primo caso si tirano le fila dei capitoli precedenti. Non cercando a tutti i costi il climax ascendente. In questo caso specifico un climax ascendente lo si può riscontrare proprio nell’unione di tutti i vari personaggi, nelle prime fasi di episodio. Casa di Joyce, Will e Jonathan diventa il fulcro degli eventi, il polo magnetico verso cui confluiscono tutte le sottotrame dei precedenti episodi. A queste ovviamente si aggiunge la reunion più sospirata di tutta la stagione: Eleven e Mike. Apprezzabile che siano stati fatti incontrare nuovamente proprio a ridosso del finale di stagione. L’immagine iconica di Eleven con i ragazzini che aveva caratterizzato la prima stagione, con tutto il successo che ne è conseguito, non ha reso obbligatorio agli autori riproporre questo scenario alle prime battute, muovendosi così in una direzione anti-fan service, più al servizio della storia.
In ogni caso questa reunion generale risulterà essere solo illusoria, in quanto un rimescolamento di carte porta i personaggi a inseguire diversi obiettivi, tutti dall’alto tasso adrenalinico, giusto per non far perdere allo spettatore il travolgente ritmo. Ciò che colpisce è che gran parte delle soluzioni erano ampiamente immaginabili anche dal meno attento degli spettatori. Se infatti l’assenza di Eleven impediva una chiusura immediata del portale interdimensionale, è strano che non si sia arrivati prima alla trovata del fuoco da una parte e del calore dall’altra (“il fuoco… vabbè io l’esperienza del fuoco te la consiglio“, direbbe qualcuno). Attenzione però: tutto ciò è estremamente coerente e realistico se si pensa chi sono i protagonisti. Non si può prevedere estrema lucidità e rapidità di azione da parte di bambini, teenager e una madre leggermente sotto stress. Giusto quindi arrivare ad alcune soluzioni solo nel finale. Certo verrebbe da chiedersi quanto sia verosimile che un fisico esile come quello di Will possa sopravvivere ad un simile “esorcismo”.
Ma, come detto ad inizio recensione, si è portati a urlare un sonoro chissenefrega a tutto questo. L’alto tasso di adrenalina, mitigato da leggeri momenti comici, l’evoluzione di personaggi apparentemente stereotipati (Steve), la memorabile fotografia e le scenografie sempre azzeccate, i momenti affettivi e tante altre virtù portano quasi a perdonare la scena finale del ballo. Scherzi a parte (la scena del ballo rappresenta un ottimo momento liberatorio dopo la tensione accumulata, nonché pienamente in linea con immagini iconiche anni ’80), è indubbio che l’opera dei Duffer bros, nella loro ricerca di un citazionismo continuo (non solo anni ’80: quello Shadow Monster aveva un aspetto fumoso assai familiare), probabilmente con i giusti mezzi, hanno creato una serie che riesce a strizzare l’occhio alla quasi totalità del pubblico. Sapere che ciò avviene con l’obiettivo primario di raccontare una storia, e forse di costruire una saga, rende tutto questo meno incline ad essere considerata un’operazione commerciale.
Certo ora viene il difficile. L’entusiasmo che aveva accompagnato la prima stagione aveva piano piano lasciato spazio alla pura immagine “promozionale” della serie. Con la spettacolarità tutta a stelle e strisce, i simpatici e giovani protagonisti avevano iniziato ad apparire ovunque, rendendo Stranger Things non più un geniale prodotto evocativo e avvincente, ma un tormentone. La brillante costruzione dei personaggi (il lato giocoso di Lucas e Dustin, contrapposto all’intimismo cupo e riflessivo di Eleven e Mike) era stata esorcizzata da memes, gadget e qualsiasi altro elemento utile a rendere Stranger Things un fenomeno di costume. Tale martellamento mediatico non poteva competere con otto ore scarse di show che probabilmente tutti stavano anche dimenticando. Paradossalmente, quindi, le aspettative per la seconda stagione non erano altissime. E alla fine forse è stato meglio così, purché ora ci si ricordi che Stranger Things ha una sua dignità, una storia da portare avanti e probabilmente un universo narrativo che può ancora dare tanto. Lasciateci attendere la terza stagione in pace.
Chi muore, chi si salva, come ci si salva. L’immersione è totale e tale immersione avviene grazie ad un impeccabile sviluppo tecnico, ed ecco il paradosso: verso tale impianto tecnico (scrittura, recitazione, fotografia, regia, luci,
E non a caso Stranger Things, più di altre opere della celebre piattaforma streaming, divide gli episodi in capitoli (come da titolo).
Si è detto più volte: i season finale di Netflix (o Amazon) non vanno considerati come i season finale di canali televisivi. Dove nel secondo caso il finale rappresenta un appuntamento importante con cui catturare l’attenzione nei minuti conclusivi per aprire nuovi archi narrativi, nel primo caso si tirano le fila dei capitoli precedenti. Non cercando a tutti i costi il climax ascendente. In questo caso specifico un climax ascendente lo si può riscontrare proprio nell’unione di tutti i vari personaggi, nelle prime fasi di episodio. Casa di Joyce, Will e Jonathan diventa il fulcro degli eventi, il polo magnetico verso cui confluiscono tutte le sottotrame dei precedenti episodi. A queste ovviamente si aggiunge la reunion più sospirata di tutta la stagione: Eleven e Mike. Apprezzabile che siano stati fatti incontrare nuovamente proprio a ridosso del finale di stagione. L’immagine iconica di Eleven con i ragazzini che aveva caratterizzato la prima stagione, con tutto il successo che ne è conseguito, non ha reso obbligatorio agli autori riproporre questo scenario alle prime battute, muovendosi così in una direzione anti-fan service, più al servizio della storia.
In ogni caso questa reunion generale risulterà essere solo illusoria, in quanto un rimescolamento di carte porta i personaggi a inseguire diversi obiettivi, tutti dall’alto tasso adrenalinico, giusto per non far perdere allo spettatore il travolgente ritmo. Ciò che colpisce è che gran parte delle soluzioni erano ampiamente immaginabili anche dal meno attento degli spettatori. Se infatti l’assenza di Eleven impediva una chiusura immediata del portale interdimensionale, è strano che non si sia arrivati prima alla trovata del fuoco da una parte e del calore dall’altra (“il fuoco… vabbè io l’esperienza del fuoco te la consiglio“, direbbe qualcuno). Attenzione però: tutto ciò è estremamente coerente e realistico se si pensa chi sono i protagonisti. Non si può prevedere estrema lucidità e rapidità di azione da parte di bambini, teenager e una madre leggermente sotto stress. Giusto quindi arrivare ad alcune soluzioni solo nel finale. Certo verrebbe da chiedersi quanto sia verosimile che un fisico esile come quello di Will possa sopravvivere ad un simile “esorcismo”.
Ma, come detto ad inizio recensione, si è portati a urlare un sonoro chissenefrega a tutto questo. L’alto tasso di adrenalina, mitigato da leggeri momenti comici, l’evoluzione di personaggi apparentemente stereotipati (Steve), la memorabile fotografia e le scenografie sempre azzeccate, i momenti affettivi e tante altre virtù portano quasi a perdonare la scena finale del ballo. Scherzi a parte (la scena del ballo rappresenta un ottimo momento liberatorio dopo la tensione accumulata, nonché pienamente in linea con immagini iconiche anni ’80), è indubbio che l’opera dei Duffer bros, nella loro ricerca di un citazionismo continuo (non solo anni ’80: quello Shadow Monster aveva un aspetto fumoso assai familiare), probabilmente con i giusti mezzi, hanno creato una serie che riesce a strizzare l’occhio alla quasi totalità del pubblico. Sapere che ciò avviene con l’obiettivo primario di raccontare una storia, e forse di costruire una saga, rende tutto questo meno incline ad essere considerata un’operazione commerciale.
Certo ora viene il difficile. L’entusiasmo che aveva accompagnato la prima stagione aveva piano piano lasciato spazio alla pura immagine “promozionale” della serie. Con la spettacolarità tutta a stelle e strisce, i simpatici e giovani protagonisti avevano iniziato ad apparire ovunque, rendendo Stranger Things non più un geniale prodotto evocativo e avvincente, ma un tormentone. La brillante costruzione dei personaggi (il lato giocoso di Lucas e Dustin, contrapposto all’intimismo cupo e riflessivo di Eleven e Mike) era stata esorcizzata da memes, gadget e qualsiasi altro elemento utile a rendere Stranger Things un fenomeno di costume. Tale martellamento mediatico non poteva competere con otto ore scarse di show che probabilmente tutti stavano anche dimenticando. Paradossalmente, quindi, le aspettative per la seconda stagione non erano altissime. E alla fine forse è stato meglio così, purché ora ci si ricordi che Stranger Things ha una sua dignità, una storia da portare avanti e probabilmente un universo narrativo che può ancora dare tanto. Lasciateci attendere la terza stagione in pace.
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Next season(s), on Stranger Things:
Dopo che Will è finito per sbaglio in un’altra dimensione e posseduto da un gigantesco mostro, girano alcune voci sui soggetti delle prossime stagioni. Nella terza stagione Will verrà rapito dagli alieni e anche malmenato. Nella quarta stagione si buscherà una potente influenza intestinale. Addirittura gira voce che nella quinta sarà visto solo come un amico da una ragazza.
Dopo che Will è finito per sbaglio in un’altra dimensione e posseduto da un gigantesco mostro, girano alcune voci sui soggetti delle prossime stagioni. Nella terza stagione Will verrà rapito dagli alieni e anche malmenato. Nella quarta stagione si buscherà una potente influenza intestinale. Addirittura gira voce che nella quinta sarà visto solo come un amico da una ragazza.
Chapter Eight: The Mind Flayer 2×08 | ND milioni – ND rating |
Chapter Nine: The Gate 2×09 | ND milioni – ND rating |
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Approda in RecenSerie nel tardo 2013 per giustificare la visione di uno spropositato numero di (inutili) serie iniziate a seguire senza criterio. Alla fine il motivo per cui recensisce è solo una sorta di mania del controllo. Continua a chiedersi se quando avrà una famiglia continuerà a occuparsi di questa pratica. Continua a chiedersi se avrà mai una famiglia occupandosi di questa pratica.
Gli piace Doctor Who.