“Nobody can tell ya
There’s only one song worth singin’
They may try and sell ya
‘Cause it hangs them up
To see someone like you
But you’ve gotta make your kind of music
Sing your own special song
Make your own kind of music
Even if nobody else sings along.”
Non siamo impazziti e quindi no, non abbiamo sbagliato serie. Vogliamo semplicemente sfidare chiunque abbia visto Lost a riconoscere di aver lanciato anche un fugace pensiero al mai dimenticato episodio che introdusse, tra le altre cose, il personaggio di Desmond, mentre scorrevano le immagini dell’intro iniziale di questo “No Room At The Inn”. Dalla maniacale ripetizione di schemi, in questo caso di un’intera giornata, da parte del reverendo Matt Jamison, alla ricorrente canzone “diegetica” e pop in sottofondo, stavolta “Let Your Love Flow” dei The Bellamy Brothers (a differenza della citata “Make Your Own Kind Of Music” dei Mama Cass Elliot). D’altro canto l’autore della serie è Damon Lindelof, storico sceneggiatore della serie-evento dell’ABC (nonché bersaglio principale dei detrattori), che oggi come allora sta infarcendo il proprio show di minuzie tecniche e raffinate, insieme alla forte presenza di tematiche esistenziali e religiose. In fondo, lo stesso titolo di quella memorabile premiére di seconda stagione, “Man of Science, Man of Faith“, dai più assunta come filosofia dialettica e basilare dell’intero Lost e che sanciva per molti la straordinarietà della serie, finisce anch’esso inglobato dall’intrico delle disgrazie che coinvolgono l’uomo di fede Jamison, per l’appunto, confermando a loro volta quanto le infinite potenzialità della prima stagione di The Leftovers stiano trovando la loro giusta e eccezionale consacrazione in questa seconda.
Su questo “No Room At The Inn” si potrebbero spendere, infatti, copiosi papiri di riflessioni e analisi testuali, dettati da livelli di lettura paurosi quanto innumerevoli, ma allo stesso tempo basterebbe rimanere in silenzio e lasciar parlare solo le nostre emozioni di spettatori poiché, in piena linea col dogma della serie, “pensare” diventa quasi superfluo di fronte ad un livello tale di “catarsi” raggiungibile durante la visione. Su un piano superficiale, intanto, “No Room At The Inn” segue l’episodio Matt Jamison-centrico della scorsa stagione “Two Boats And A Helicopter“, con numerose uguaglianze e sostanziali differenze. Lindelof & co., diciamolo, si divertono alquanto a farne passare al povero reverendo di tutti i colori, caratterizzando piuttosto linearmente, nella sua altalenanza, lo sviluppo della trama, fatto di vorticose e mistiche “salite” e conseguenti e immediate, quasi inevitabili, “discese”. Nelle prime la speranza domina, caratterizzata dalla fede incondizionata, e inizialmente ripagata, di Jamison, che viene messa a dura prova però dalla crudeltà dell’umanità (le discese) la quale puntualmente lo tradisce. Le sue convinzioni che sembrano in principio ben riposte vista l’effettiva vincita al gioco o la gravidanza della moglie; l’uomo che gli porta via tutto, che sia il ladro fuori il Casinò o il padre disperato che gli ruba il braccialetto per poter tornare a Jarden. Ma, ovviamente, al puro “intrattenimento”, come detto solo di base, fa subito posto l’angoscia per le sue vicissitudini e la ricchezza della loro componente tutta “biblica”.
“And there was no room for them in the inn“, dopotutto, questo il passo del Vangelo secondo Luca a cui sembra riferirsi direttamente il titolo dell’episodio, che a sua volta rimanda al racconto della Natività di Gesù Cristo. Le peripezie dei due coniugi che cercano a tutti i costi di tornare a Miracle, per mantenere salda l’opera provvidenziale della località (e l’Isola di Lost, a proposito, non aveva un po’ lo stesso valore, in particolare per Rose e Bernard?), riprende quindi analogamente il viaggio di Maria/Mary (entrambe gravide per circostanze “divine”) e Giuseppe/Jamison per le locande di Betlemme/Jarden in cerca di un posto per la notte, non trovando però fortuna perché, come da citazione, “non ci sono stanze”. La missione salvifica viene in questo modo impedita dall’indifferenza, peggiore in realtà della vera crudeltà, del genere umano. Vedi la scena in cui Matt viene informato dal dottore della gravidanza di Mary e di come questo rimane impassibile di fronte all’incontenibile gioia del reverendo, premurandosi maggiormente di levarsi da qualsiasi eventualità legale che possa coinvolgerlo in futuro. “Man of Science, Man of Faith“, si diceva in fondo: l’altro scontro ideologico, infatti, si consuma sul piano dello scetticismo e quale miglior scontro se non quello col vicino (e già odiatissimo) di Kevin, l’uomo di scienza John Murphy e la sua personale crociata secondo il suo di credo, ovvero il “there are no miracles in Miracle“. La battaglia concettuale qui tocca vette da brividi, “promessi” fin da quello sguardo di disapprovazione di Murphy a Matt nella premiére di stagione, che testimoniano intanto l’alto livello di scrittura e programmazione dell’autore e che raggiungono, poi, un’intensità seconda solo alla sequenze riservate all’esterno di Jarden.
L’altra ennesima faccia della medaglia è, infatti, sicuramente data dalla rappresentazione del peccato (originale, o meno) della Sodoma e Gomorra versione Leftovers. La messa in scena dei confini di Miracle e del campo-profughi accostato periodicamente, dal personaggio di turno, nei precedenti episodi, ancora però mai mostrataci davvero, è qualcosa di surreale, grottesco e assurdo, ma insieme potente, lirico, immaginifico, ricolma di allegorie sbattuteci in faccia a iosa, come se non ci fosse un domani. Nel luogo “dimenticato da Dio”, dalla profanità dirompente, il puro e incorruttibile Matt Jamison, come succedeva col ricorso al gioco d’azzardo nella prima stagione, scende a patti col Diavolo pur di completare il proprio cammino, dal “Brian” (di Nazareth? says Monty Python) al tentativo di entrare illegalmente a Jarden. Ma la provvidenza divina (alias sceneggiatori), ancora una volta, interviene per insegnargli la lezione: dopotutto, come le Scritture narrano, in mancanza di “stanze”, la Sacra Famiglia vede la sua formazione in una modesta mangiatoia.
Il luogo di perdizione diventa così lo sfondo adatto per la sua redenzione, una lezione d’umiltà (come Indiana Jones insegna) di cui Matt prende coscienza solo nel finale, nel quale, rientrando nel ruolo che più gli compete, attua l’operazione “salvifica” nei confronti del bambino, vittima ignara ed innocente delle vergogne dell’umanità, ritrovando inoltre ferma la propria fede, come si evince dal nuovo faccia a faccia con Murphy. No Room At The Inn, d’altro canto, è anche il titolo di un film inglese del 1948, basato su una pièce teatrale, riguardante l’abuso dei bambini e il loro tragico destino in epoca Seconda Guerra Mondiale (un plot che può ricordare, quasi non a caso visto il titolo, un certo film di Pasolini…).
A reggere la complessità morale e il vigore emozionale dell’episodio, ovviamente, la suprema prova regalataci da Christopher “Nine” Ecclestone, che esalta ancora una volta i suoi ex-fan di Doctor Who ed entusiasma all’inverosimile chi invece lo vede protagonista per la prima (o meglio, seconda) volta. Un’interpretazione al solito supportata magistralmente dalle note al piano di Max Richter e, come accennato in fase di presentazione, da un comparto tecnico sempre elevatissimo (allo scenografo, a questo giro, dovrebbero fargli una statua). Tutto quel che serve, in sintesi, per confezionare un episodio che conferma l’energia e l’efficacia di uno show di cui si parla ancora troppo poco.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Orange Stricker 2×04 | 0.52 milioni – 0.3 rating |
No Room At The Inn 2×05 | 0.62 milioni – 0.3 rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.
Recensione perfetta! é un piacere leggerti, poi vabbè… questa puntata come entrambe le stagioni ispirano davvero tanto! Ancora complimenti! 😉