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Nel folklore nipponico il baku è un mostro ispirato al tapiro, che si dice protegga dalle epidemie e si nutra degli incubi. Come un baku, di cui prende in prestito persino il nome per viaggiare sotto copertura, l’ispettore Kido si addentra nella Zona Neutrale, alla ricerca del suo incubo da estirpare, che risponde al nome di Frank Frink. E Frank, a sua volta, è un uomo che accetta serenamente il proprio destino, andando incontro alla morte con un contegno che gli vale il rispetto dell’avversario. Non muore legato a un palo e infilzato dalle baionette di un plotone di soldati, come un traditore hapa qualsiasi; muore onorevolmente, decapitato, come succedeva ai samurai durante il rituale del seppuku.
Ci si potrebbe chiedere che senso abbia avuto riportare in una narrazione già abbastanza lenta e “ingolfata” da sottotrame poco appetitose (Thelma e Nicole, Childan, Eddie) un personaggio come Frank per poi ucciderlo a pochi episodi di distanza, quando già gli eventi di “Detonation” avevano rappresentato un’ottima uscita di scena. A ben guardare, però, tutta la sua storyline in questa terza stagione non va letta come un tentativo di rilanciare un personaggio altrimenti inutile, bensì come la parabola di un uomo che prima della fine chiude ogni conto in sospeso: col mondo, lasciando in eredità ai posteri quei disegni del sole nascente che incitano alla riscossa ben più di un attentato suicida; con se stesso e le proprie radici, riabbracciando tardivamente tramite il bar mitzvah la religione e la cultura da cui era sempre fuggito; con l’amata Juliana, riabbracciata un’ultima volta per dirle addio come si deve. Il culmine di questo processo è stato la resa dei conti con Kido, l’uomo che più di ogni altro ha la responsabilità di aver trasformato il mite operaio in un rivoluzionario e un terrorista.
Anche se Kido e Frank, il baku e l’incubo da divorare, si incontrano/scontrano a Denver, è la desolata piana in cui un tempo sorgeva il campo di internamento di Manzanar a fare da scenario al loro ultimo faccia a faccia. È una scelta tutt’altro che casuale, perché Manzanar è una delle località in cui il governo statunitense imprigionò migliaia di cittadini di origine giapponese dopo l’attacco di Pearl Harbour, e anche se non si giunse mai agli orrori dei campi di concentramento nazisti appare piuttosto evidente il parallelismo: tanto più se si considera che nella realtà alternativa della serie sono state le potenze dell’Asse a vincere la guerra, e quindi sono stati i loro eserciti a liberare Manzanar nello stesso modo in cui nel nostro mondo l’Armata Rossa ha liberato Auschwitz.
Altro incontro molto atteso, meno dirompente ma non certo meno importante, è quello tra il Reichsmarshall Smith e il ministro del commercio Tagomi, due uomini accomunati non più solo dal desiderio di mantenere la pace e l’equilibrio tra i propri imperi, ma anche dalla perdita di un figlio. Sicuramente l’alto gerarca nazista sarà rimasto colpito più dalla conferma che è possibile viaggiare tra i mondi e trovare altre versioni di Thomas che dalla lista di disertori del Reich che Tagomi gli dona in segno di collaborazione e distensione politica e forse l’ossessione per il primogenito, che lo porta a visionare ore e ore di filmati provenienti da quelle altre dimensioni, avrà risvolti importanti in futuro (dobbiamo prepararci a Smith versione Walter Bishop di Fringe?), tuttavia per il momento il fiero Reichsmarschall continua a immergersi anima e corpo nel lavoro per conto di Himmler, riuscendo ad avvicinarsi sempre più ad Abendsen.
Ci si potrebbe chiedere che senso abbia avuto riportare in una narrazione già abbastanza lenta e “ingolfata” da sottotrame poco appetitose (Thelma e Nicole, Childan, Eddie) un personaggio come Frank per poi ucciderlo a pochi episodi di distanza, quando già gli eventi di “Detonation” avevano rappresentato un’ottima uscita di scena. A ben guardare, però, tutta la sua storyline in questa terza stagione non va letta come un tentativo di rilanciare un personaggio altrimenti inutile, bensì come la parabola di un uomo che prima della fine chiude ogni conto in sospeso: col mondo, lasciando in eredità ai posteri quei disegni del sole nascente che incitano alla riscossa ben più di un attentato suicida; con se stesso e le proprie radici, riabbracciando tardivamente tramite il bar mitzvah la religione e la cultura da cui era sempre fuggito; con l’amata Juliana, riabbracciata un’ultima volta per dirle addio come si deve. Il culmine di questo processo è stato la resa dei conti con Kido, l’uomo che più di ogni altro ha la responsabilità di aver trasformato il mite operaio in un rivoluzionario e un terrorista.
Anche se Kido e Frank, il baku e l’incubo da divorare, si incontrano/scontrano a Denver, è la desolata piana in cui un tempo sorgeva il campo di internamento di Manzanar a fare da scenario al loro ultimo faccia a faccia. È una scelta tutt’altro che casuale, perché Manzanar è una delle località in cui il governo statunitense imprigionò migliaia di cittadini di origine giapponese dopo l’attacco di Pearl Harbour, e anche se non si giunse mai agli orrori dei campi di concentramento nazisti appare piuttosto evidente il parallelismo: tanto più se si considera che nella realtà alternativa della serie sono state le potenze dell’Asse a vincere la guerra, e quindi sono stati i loro eserciti a liberare Manzanar nello stesso modo in cui nel nostro mondo l’Armata Rossa ha liberato Auschwitz.
Altro incontro molto atteso, meno dirompente ma non certo meno importante, è quello tra il Reichsmarshall Smith e il ministro del commercio Tagomi, due uomini accomunati non più solo dal desiderio di mantenere la pace e l’equilibrio tra i propri imperi, ma anche dalla perdita di un figlio. Sicuramente l’alto gerarca nazista sarà rimasto colpito più dalla conferma che è possibile viaggiare tra i mondi e trovare altre versioni di Thomas che dalla lista di disertori del Reich che Tagomi gli dona in segno di collaborazione e distensione politica e forse l’ossessione per il primogenito, che lo porta a visionare ore e ore di filmati provenienti da quelle altre dimensioni, avrà risvolti importanti in futuro (dobbiamo prepararci a Smith versione Walter Bishop di Fringe?), tuttavia per il momento il fiero Reichsmarschall continua a immergersi anima e corpo nel lavoro per conto di Himmler, riuscendo ad avvicinarsi sempre più ad Abendsen.
Diverso è il discorso per Helen, sempre più fragile e prossima al tracollo, soprattutto dopo la fine delle sedute psicanalitiche: il dolore per la perdita subita si traduce in prima istanza nella critica sempre più aperta delle politiche eugenetiche del Reich, arbitrariamente applicate in modo da salvaguardare i pezzi grossi come Goebbels (che effettivamente soffriva di piede equino e conseguente zoppia). Ma la reazione della donna contro il sistema va ben oltre, soprattutto quando ad affiorare non sono solo la rabbia e la frustrazione per la morte di Thomas ma anche il timore di dover ripetere l’esperienza con le altre due figlie, e così la visita a domicilio dell’infermiera che dovrebbe compiere le analisi del sangue su Amy si conclude con un atto di ribellione che in un regime fortemente attento alle apparenze quale quello nazista potrebbe avere serie ripercussioni anche sulla carriera di John.
In questo quadro generale profondamente mesto, col Reich a un passo dalla cancellazione dell’identità culturale americana, Frank morto e Abendsen col cappio nazista sempre più stretto intorno al collo, l’unico barlume di speranza è offerto dal piccolo germe di resistenza che prende vita a New York. Dopo otto episodi di giri a vuoto, di fughe, di tentativi fallimentari di smuovere le coscienze, finalmente Juliana riesce a dimostrare che la propria permanenza sulla scena non è solo un inutile spreco di minutaggio, ma serve a sferrare un duro colpo al nemico nel cuore stesso del Reich americano. Un finale col botto a questo punto sarebbe auspicabile, a coronamento e almeno parziale risarcimento di una stagione che non ha proprio brillato in fatto di ritmo e che ha atteso le sue battute conclusive per dare almeno l’impressione di voler andare a parare da qualche parte.
In questo quadro generale profondamente mesto, col Reich a un passo dalla cancellazione dell’identità culturale americana, Frank morto e Abendsen col cappio nazista sempre più stretto intorno al collo, l’unico barlume di speranza è offerto dal piccolo germe di resistenza che prende vita a New York. Dopo otto episodi di giri a vuoto, di fughe, di tentativi fallimentari di smuovere le coscienze, finalmente Juliana riesce a dimostrare che la propria permanenza sulla scena non è solo un inutile spreco di minutaggio, ma serve a sferrare un duro colpo al nemico nel cuore stesso del Reich americano. Un finale col botto a questo punto sarebbe auspicabile, a coronamento e almeno parziale risarcimento di una stagione che non ha proprio brillato in fatto di ritmo e che ha atteso le sue battute conclusive per dare almeno l’impressione di voler andare a parare da qualche parte.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Frenata finora dall’eccessiva lentezza e dalla mole di storylines aperte (e non sempre immediatamente utili ai fini della trama generale), The Man in the High Castle riesce finalmente a sbloccare alcune situazioni e a gettare le basi per il season finale. E’ ancora poco per ripagare completamente la pazienza dello spettatore, ma dopo ore e ore di nulla cosmico o quasi persino la morte di Frank o la quasi-cattura di Abendsen sono svolte narrative gradite.
Kasumi (Through the Mists) 3×08 | ND milioni – ND rating |
Baku 3×09 | ND milioni – ND rating |
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Divoratore onnivoro di serie televisive e di anime giapponesi, predilige i period drama e le serie storiche, le commedie demenziali e le buone opere di fantascienza, ma ha anche un lato oscuro fatto di trash, guilty pleasures e immondi abomini come Zoo e Salem (la serie che gli ha fatto scoprire questo sito). Si vocifera che fuori dalla redazione di RecenSerie sia una persona seria, un dottore di ricerca e un insegnante di lettere, ma non è stato ancora confermato.