Nel gergo sportivo il “playbook” è la lavagnetta tenuta in mano dagli allenatori in cui sono annotati tutti gli schemi e le tattiche di gioco.
E The Playbook è anche il nome della nuova docu-serie a tema sportivo targata Netflix in cui, in maniera metaforica, alcuni tra i più noti coach di vari sport aprono il loro “playbook” per svelare i segreti dei propri successi.
Dopo The Last Dance dunque Netflix continua a sperimentare lo storytelling sportivo, stavolta decidendo di passare “dall’altra parte della panchina”, ponendo l’attenzione su coloro che ogni giorno lavorano per “plasmare” squadre e star dello sport. Figure sicuramente interessanti le cui competenze vanno ben oltre la sola tecnica di gioco, ma toccano anche sfere emotive, psicologiche e organizzative. Scoprire come queste personalità lavorano e si rapportano con gli atleti è lo scopo dei vari episodi che si pongono in maniera prettamente mono-biografica. Ma, come spesso accade in prodotti del genere, non si tratta solo di questo.
GLI/LE SPECIAL ONES
Da notare il fatto che, pur avendo come protagonisti principali allenatori ed allenatrici, dietro l’ideazione dello show ci sia sempre un giocatore. Così come The Last Dance nasceva dalla stessa volontà del protagonista-produttore Michael Jordan, così The Playbook vede tra i produttori la stella NBA Lebron James. Il che spiega anche la predominanza degli sport di squadra (praticamente l’unico rappresentante degli sport “singoli” è Patrick Mouratoglou per il tennis) e la scelta, tra questi, del basket come apripista nell’episodio pilota, dedicato a Doc Rivers. Scelta emblematica poiché, nonostante l’attuale coach dei Los Angeles Clippers possa vantare un palmares di tutto rispetto, in termini di innovazione del gioco o schemi riconoscibili sarebbero forse stati più adatti coach come Gregg Popovich o (per rimanere in tema di The Last Dance) Phil Jackson. La scelta di Rivers è dovuta soprattutto alla sua storia personale come allenatore afro-americano (in particolare per quanto riguarda un episodio di razzismo da parte dello stesso proprietario dei Clippers di non troppi anni fa). Da qui si capisce che ogni episodio parte dal tema sportivo per poi trascendere verso aspetti più sociali e universali che riguardano, più in generale, aspetti della comunicazione e dei rapporti umani, in cui ogni protagonista lascia dei suggerimenti (da qui il sottotitolo “A Coach’s Rules For Life” intese più come regole di vita che non consigli tattici su come fare punti) imparati in base alle proprie esperienze. Il che aiuta sicuramente a rendere più interessante la serie anche allo spettatore non appassionato di sport.
Così, ad esempio, la puntata su José Mourinho diventa una riflessione sul rapporto (spesso controverso) con i media, ma anche una buona lezione di mental coaching e sviluppo delle capacità di problem solving di fronte alle difficoltà. Allo stesso modo l’esperienza di Patrick Mouratoglou insegna l’importanza dell’ascolto e dell’empatia verso il prossimo, soprattutto di fronte agli apparenti “capricci” di star del calibro di Serena Williams che in realtà nascondono, per l’appunto, un bisogno di attenzioni e affetto.
Grande importanza viene data, inoltre, alla causa femminista con due episodi che fanno da accoppiata ideale ai loro corrispettivi maschili. E in questo caso la scelta delle due protagoniste di questa prima stagione è tutta “made in USA” con le puntate dedicate a Jillian Ellis e Dawn Staley, rispettivamente allenatrici delle nazionali statunitensi femminili di calcio e basket.
Si tratta pur sempre di un prodotto Netflix, piattaforma che ha deciso di fare del politically correct e delle battaglie identitarie la propria cifra stilistica, per cui non stupisce il motivo di questa scelta. Attraverso queste due protagoniste vengono avanzate le istanze del mondo sportivo femminile, da sempre messo in secondo piano dai media e dallo stesse federazioni professionistiche. Un mondo che invece preme per far sentire la propria voce e di cui lo show si fa portavoce ideale anche per questo scopo.
TRA BIOGRAFIA E FOUND FOOTAGE
Il tono scelto dalle varie testimonianze è volutamente informale, seguendo la modalità narrativa delle “confessioni personali” che va per la maggiore nei programmi di storytelling sportivo (a parte Mourinho che conserva sempre l’aplomb glaciale che lo caratterizza). Una modalità narrativa e uno stile di life-coaching prettamente “americani” che sottintendono tutti gli episodi dall’inizio alla fine.
Eppure, al di là della retorica che trasuda dalle parole dei vari protagonisti, si nota in tutti loro anche una certa umanità data dalla timidezza di fronte alle telecamere, tipica di chi non è troppo abituato ad essere al centro dell’attenzione rispetto alle proprie “star” sportive. Questa umanità dei personaggi presentati è in realtà il vero motivo di successo dello show. A livello empatico poi funziona certamente il racconto inedito dei vari momenti di sconforto che tutti quanti hanno provato almeno una volta nella loro carriera (si tratta pur sempre di una delle professioni più precarie al mondo, in cui basta un errore per essere tagliati fuori dai radar delle grandi squadre).
Proprio il racconto delle sconfitte sportive rispetto alle vittorie, e le conseguenti lezioni di vita che se ne traggono, sono il focus principale del racconto. Come insegna Jillian Ellis: “You’re not supposed to dwell on the top of the mountain. It’s rented space. You get up there, enjoy the view briefly, and must climb again!”.
Il modo in cui i vari coach si rialzano dopo le cadute professionali sono validi e ottimi insegnamenti e in definitiva sono il vero motivo per cui seguire lo show anche se non si è necessariamente appassionati di sport.
A questo si aggiunge un’ottima regia che si dimostra completamente al servizio del “racconto libero” dei protagonisti, introducendo di volta in volta grafiche accattivanti, interviste di atleti e addetti ai lavori e momenti-chiave delle partite, realizzati con un ottimo found-footage. Quest’ultimo è ricostruito in maniera tale da restituire la bellezza del gesto sportivo, mettendo così a frutto gli insegnamenti di The Last Dance che, in questo aspetto, è risultato pressoché perfetto.
LO STORYTELLING CHE APPASSIONA
Lo show, dunque, benché forse rivolto ad un pubblico più ristretto di appassionati, rispetto allo show su Michael Jordan ed i Bulls (che ha ricevuto ben più ampia attenzione da parte di pubblico e critica), si dimostra un prodotto decisamente più versatile ed interessante, proprio perché adatto anche ai non amanti delle docu-serie a tema sport. E sicuramente non annoia mentre scorre tranquillamente con le sue 5 puntate da 30 minuti ciascuna, senza troppi fronzoli o divagazioni ma andando dritto al cuore del discorso.
Una capacità di storytelling unica nel suo genere che regala perle di saggezza niente affatto banali e che, per questo motivo, merita senz’altro una visione.
… THEM ALL!
Doc Rivers 1×01 | |
Jill Ellis 1×02 | |
José Mourinho 1×03 | |
Patrick Mouratoglou 1×04 | |
Dawn Staley 1×05 |
Tutti quanti vogliono fare gli allenatori, ma cosa significa esserlo veramente? In questa nuova e interessante docu-serie Netflix mostra la filosofia e il punto di vista di chi, per forza di cose, è costretto a stare “in panchina” per dirigere gli altri. Produce Lebron James… sinonimo di garanzia!
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Laureato presso l'Università di Bologna in "Cinema, televisione e produzioni multimediali". Nella vita scrive e recensisce riguardo ogni cosa che gli capita guidato dalle sue numerose personalità multiple tra cui un innocuo amico immaginario chiamato Tyler Durden!