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Nelle scorse recensioni si è detto molto del pesante confronto di Utopia con l’originale britannico, soprattutto in termini positivi. Si è detto dell’incredibile quanto sconvolgente tempismo d’uscita della serie (si ricorda, finita di girare a ottobre 2019), che tratta di un fumetto capace di prevedere epidemie mondiali, proprio mentre il mondo, oggi, è stato completamente sconvolto dal Covid. Si è detto infine del gusto meta-narrativo di questa versione americana, che appunto gioca con la mitologia, col fandom, col culto, infine col cospirazionismo del web 2.0, tutti aspetti di cui è pregna tanto la trama quanto la realtà odierna (basti pensare alle tante teorie che circolano su internet, a proposito delle origini del virus). Bene, al terzo episodio, si intravedono solo conferme di tutto questo, mentre si registrano, al tempo stesso, chiavi di volta per un livello successivo, verso l’assunzione di una propria identità. In cui non ci si cura più “solo” della forma, dei riferimenti culturali, di rendere il giusto e sentito omaggio all’opera originale, ma ci si concentra soprattutto sulla storia e i suoi protagonisti. Perché il debito con la serie “madre” ci sarà sempre, perché si potrà pure pensare a quanto è assurdo (ed azzeccato) che Utopia esca proprio oggi, in questo preciso momento, ma in fondo si tratta pur sempre di un remake, Amazon “non si è inventata nulla”. E allora è giunto il momento, dopo la giusta celebrazione di quello che è stato un vero e proprio caso televisivo nell’ormai “lontano” 2013 (specie per la sua breve durata), di “farla propria”.
Come detto, la base di partenza fino ad ora è apparsa già più che positiva poiché a Gillian Flynn, a prescindere da quanto già detto, va riconosciuto soprattutto il merito di non essere incappata nell’errore di tanti suoi colleghi, che come lei sono stati chiamati ad adattare lo stile britannico a quello americano, che saranno sempre per forza di cose diversi. E se già le differenze sono lampanti, specie in termini di messa in scena, l’Utopia di Gillian Flynn comunque vince e convince perché sta dimostrando, semplicemente, di non mancare affatto di coraggio. Quello che è accaduto, per esempio, a Black Mirror nel passaggio a Netflix, col suo puntare esclusivamente solo sul versante “tecnologico” perdendo completamente di vista quella riflessione sulla natura umana, per ora non si sta ripetendo, anzi. L’omicidio a sangue freddo con cui si chiude la seconda puntata segna il punto di non-ritorno tra una serie “solo” cruda e violenta ed una che sceglie davvero di osare, di alzare l’asticella.
“Tuesday’s Child” affronta infatti il dilemma morale che scaturisce dalla morte di Samantha, tanto per lo spettatore quanto per i protagonisti: come ci si può immedesimare in un’eroina capace di uccidere qualcuno che non lo meritava affatto? Non è quello che fanno gli eroi, né tantomeno gli “anti”. Jessica in un solo gesto varca quella soglia che ha caratterizzato il memorabile percorso dei Tony Soprano/Walter White (con i dovuti confronti temporali, naturalmente), volendo in pieno stile Amazon, che nelle sue più recenti produzioni originali sembra stia puntando proprio a questo nuovo livello di “scorrettezza”, basti vedere The Boys, riflettendo le vette di cinismo raggiunte dalla società contemporanea (a differenza dei casi precedentemente citati, ben più intimi, personali e non a caso profondamente più sconvolgenti). Il gruppo dei “fanboy” protagonisti della serie, allora, adesso non solo si trova dentro la cospirazione di Utopia, ma deve fare delle scelte, decidere se seguire un leader tanto psicopatico e “anaffettivo” o scappare. In sintesi, per usare le parole del Dr. Christie, scegliere come “guadagnarsi il proprio posto in questo affollato mondo”. Da spettatori passivi devono diventare quindi parte attiva all’interno della storia e ognuno di loro rispecchia le diverse e contrastanti reazioni di chi, appunto, sta guardando: Ian è lo spettatore che rifiuta di perdonare le azioni di Jessica, ma sceglie di seguire “la serie” per amore di un altro personaggio (Becky); Becky, che per puri interessi personali vuole continuare per questa strada, ignorando le cose terribili che stanno accadendo; Wilson Wilson, diviso tra il piangere la scomparsa di Samantha e la fascinazione di una vita per la cospirazione, per la ricerca della verità, l’esaltazione per esserci finalmente dentro. In tutto questo, a proposito di differenze di stili, aleggia un’intrigante quanto divertente fusione tra il black humor britannico e il gusto per il politicamente scorretto e per l’aderenza alla quotidianità della comicità a stelle e strisce, vedi Becky che salva i caffè nella sparatoria contro i “gemelli Weasley”, oppure Rainn Wilson e compagna che festeggiano per la scoperta dell’origine del virus, per poi rendersi conto (solo per un attimo) di star danzando su una tragedia.
“Tuesday’s Child” registra un altro punto di svolta, a livello stavolta puramente di trama, ossia il ricongiungimento della storyline, fin qui quasi solitaria di Grant (e, di conseguenza, del fumetto di Utopia), con quella principale. E proprio i “child”, i bambini, sono i protagonisti di puntata, non solo dal punto di vista anagrafico, anzi, perlopiù in quanto stato psicologico e mentale, ben rappresentato dallo sfogliare rapito e innocente di Grant e Alice mentre leggono Utopia, come un fumetto qualsiasi, senza sapere (Alice perlomeno) dei morti che quelle tavole stanno causando. I bambini d’altronde sono puri e soprattutto sono “imprevedibili”, come dirà Arby al suo “capo” a fine puntata. Com’è imprevedibile lo stesso Arby, come lo è il suo rapporto con John Cusack, ovvero proprio quello di un figlio che cerca l’approvazione del padre (e viceversa da padre apprensivo e premuroso lo tratta il Dr. Christie, in una delle scene più conturbanti e riuscite di puntata). È l’influenza di una figura genitoriale, per quanto temporanea, per quanto persino estranea (oltre che, forse, troppo inverosimile nella sua bontà; ma probabilmente voluta, per un poetico contrasto con ciò che avviene al di fuori della “loro” casa), che in fondo segna il “bimbo sperduto” Grant. Quella figura che invece non ha avuto Jessica Hyde, privata della sua infanzia, che non a caso ritorna “infantile” una volta scoperta la possibile scomparsa di suo padre, il cui ritrovamento è praticamente la sua unica ragione di vita. Solo un momento di sconforto, che però svela tutta la sua umanità (fino a qui insospettabile), poi accentuata da comportamenti che denotano il suo essere cresciuta lontana dalla civiltà, vedi il non saper usare la tecnologia o non conoscere le buone maniere (come “fagocita” il buffet del funerale). L’assassinio del suo mentore, allora, la quale più che fargli da madre si è interessata ad addestrarla alla sopravvivenza, oltre che in linea con la distruzione della mitologia del fumetto, che appunto vedeva Artemis “proteggerla sempre” (e già esplicitata da Samantha ai cosplay del comicon, nel pilota), va inquadrato nel macabro percorso di crescita del personaggio. Staccandosi dalla figura protettrice di Artemis, giunge anche per lei l’ora di “guadagnarsi il posto in questo affollato mondo”, dopo aver vissuto ai suoi margini per così tanto tempo.
In materia di crescita e dell’influenza che i rigidi costrutti sociali esercitano su ognuno di noi e sulla volontà, fanciullesca e ribelle, di rifuggerli, sarà perché tanto si prestano ad essere riletti in chiave allegorica e onirica, resta impressionante (ma in fondo, pensandoci, anche piuttosto naturale) constatare quanti autori sono ossessionati dagli scritti di Lewis Carroll. Alice è, soprattutto, Jessica Hyde che stavolta però si vede perseguitata (e non viceversa) dal Bianconiglio malvagio, Mr. Rabbit. E continuando in questo schema alla rovescia, Wonderland, dove si trova Artemis, è uno sporco e desolante rifugio a cielo aperto per senzatetto, oltre che essere un posto “sicuro” per la protagonista, mentre la casa, o meglio “Home”, rappresenta invece il massimo pericolo. Quell’Home che nel suo spostarsi continuamente, rappresenta letteralmente ogni luogo possibile, e in cui non a caso risiede il Dr. Christie/John Cusack, dal nome che invece è un chiaro riferimento a un altro celebre best seller della letteratura (e cui il rovesciamento raggiunge vette altissime). Gli indizi che la sua figura non era così pulita e candida come poteva sembrare sicuramente non sono sfuggiti agli spettatori più smaliziati, ma tanto una presentazione così ben costruita, quanto l’interpretazione dell’attore al momento della sua agnizione, finiscono col regalare, come detto, un momento incredibile e sorprendente (ancora una volta). “Home” è allora il mondo reale, ben più crudele, violento, artefatto e senza scrupoli di quello raccontato ne i libri o al cinema. Quello con cui Rainn Wilson/Michael Stearns, finalmente uscito dal sotterraneo in cui è stato relegato per anni è costretto a scontrarsi, con drammatica e disperante delusione. Meravigliosa la scena, a tal proposito, in cui da scienziato salvatore dell’umanità si comporta “come” in un disaster movie di Roland Emmerich (sempre a proposito di meta) per cercare di entrare nel centro governativo, per poi doversi arrendere che no, nel mondo reale non va affatto come nei film.
Non c’è dubbio: Utopia, in questi primi tre episodi sta cogliendo nel segno.
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Utopia gioca, con gusto, brillantezza e incisività, col fandom del web, con riferimenti culturali presenti e passati, con la contemporaneità tutta, tracciando nel frattempo una strada per brillare di vita propria. Una direzione che al momento appare più che luminosa.
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.