Sin dal rilascio delle sinossi e dei titoli di questa quarta stagione di Black Mirror, era lecito aspettarsi dal sesto episodio un momento destinato alla celebrazione autoreferenziale di Charlie Brooker, la posa di una sintetica parola finale sulla (probabilmente momentanea) chiusura del secondo atto della serie in casa Netflix. Un’attesa in fin dei conti pienamente ripagata, considerando come “Black Museum” sia un gioco metanarrativo dove trovano spazio sia l’Autore di Pirandelliana memoria che il pubblico stesso.
Colm McCarthy, regista della seconda stagione di Peaky Blinders e di un episodio di Sherlock, si ritrova in mano con uno script a forma di matrioska – un po’ come era stato per lo speciale natalizio “White Christmas” – dove tre storie si succedono una dietro l’altra fino ad arrivare al finale catartico e punitivo per chi si è addentrato in profondità nelle brutture dell’animo umano che la tecnologia è stata in grado di mostrare.
Prima di addentrarsi dentro le tre diverse storie (che qualcuno potrebbe malignamente vedere come sì interessanti, ma non sufficientemente consistenti da meritarsi un episodio tutto per loro) è bene appuntarsi da qualche parte due domande apparentemente slegate tra di loro e poco inerenti la puntata: “chi si crede di essere Charlie Brooker?” è la prima; seguita poi da “chi è Rolo Haynes?”. Ad un primo livello di visione, il personaggio interpretato da Douglas Hodge è semplicemente il cattivo della storia. In passato promotore di tecnologie neurologiche all’avanguardia, ora creatore e custode di un museo del cyber-crimine in rovina dove espone numerosi artefatti storici della serie. Proprio questo Black Museum è però la chiave per poter passare a un successivo grado di lettura, appunto quello più meta: il museo da un certo punto di vista rappresenta lo show stesso, dove le 19 puntate finora mandate in onda prima su Channel4 e poi su Netflix non sono che altrettante stanze dove diverse esposizioni vengono installate. Questa prima considerazione permette anche di deresponsabilizzare Brooker dalla realizzazione del prodotto finale: non sono stati rari i casi in cui all’autore di un’opera venisse attribuita la colpevolezza per la morte di un personaggio, per esempio Collodi con il suo Pinocchio, ma il creatore di Black Mirror è paradossalmente immune da ogni recriminazione, perché in quanto curatore di questo enorme museo virtuale l’unica sua responsabilità è stata “collezionare” (esattamente come Rolo Haynes) delle premesse in cui uomo e macchina venissero a contatto, per poi lasciare spazio all’artista (in questo caso, la natura umana) nell’evoluzione spesso violenta dell’opera d’arte esposta. La sovrapposizione tra Charlie Brooker e Rolo Haynes d’altronde funziona molto bene alla luce delle prime due storie raccontate, entrambe ambientate nel fittizio ospedale “San Junipero” (inutile dire da dove nasce questo nome, vero?). In linea con quanto detto finora non lo si può ritenere responsabile per la tragica fine occorsa al medico Dawson e a Carrie, tanto che la stessa Nish, fino a questo punto simbolo dello spettatore osa mettere in dubbio il suo coinvolgimento nelle storie che racconta.
«But?»
«I’m sorry?»
«He’s having a great time. There’s gotta be a “but”.»
Come nella migliore tradizione degli episodi di Black Mirror è il finale a riscrivere interamente la storia appena raccontata mostrando nuove ombre su tutti i minuti precedenti. E se il colpo di scena narrativo sicuramente non è magistrale – molto lontano come shock da “White Bear”, per esempio – poco importa. A risultare sublime è, di nuovo, il colpo di scena meta, perché nell’esatto momento in cui si scopre che Nish effettivamente ha un motivo vero per trovarsi lì, istantaneamente “il pubblico” si ritrova orfano della propria rappresentazione simbolica e, allo stesso modo, i panni dell’improvvisamente colpevolizzato Rolo Haynes risultano troppo stretti per essere vestiti da Brooker. Ma a che pro questo sconvolgimento allegorico, questa commedia tragedia delle parti? Semplicemente per permettere allo scrittore di lanciare nell’etere un’ultima invettiva contro una deriva tecnologica di cui paradossalmente la sua creazione si è resa negli anni complice. Come a dire che, se davvero Black Mirror è un black museum, allora necessariamente “il pubblico” è come Rolo Haynes: all’origine del successo della serie non c’è una call to action per fermare la deriva tecnologica, quanto piuttosto un ancestrale voyeurismo in cui, visualizzazione dopo visualizzazione, milione dopo milione, si ricerca una catarsi da quell’orribile sensazione di appartenenza a un genere umano deviato. La responsabilità, ancora una volta non è (solo) di Brooker, ma è alla mercé di tutti, nessuno escluso. Il buon Charlie lo sa e con la sua solita sferzante malinconia ce lo ricorda.
Nota a margine: a conferma della facile sovrapposizione tra Black Mirror in generale e il museo di Haynes, la puntata è costellata da numerose citazioni ad altri episodi della serie. Qui sinteticamente quelli che siamo stati in grado di trovare noi:
- Le prime due storie, come scritto, sono ambientate all’interno dell’ospedale “San Junipero“, quarto episodio della scorsa stagione dove veniva introdotto il tema del trasferimento delle coscienze qui approfondito.
- La graphic novel che legge Jack, il protagonista della seconda storia, è “Fifteen Million Merits”, un adattamento fittizio del secondo episodio della prima stagione.
- Dagli episodi di questa quarta stagione sono stati ripresi: il lecca-lecca clonato da Robert Daly (“USS Callister“); il tablet della mamma di Sara (“Arkangel“) e la vasca da bagno dove Mia Nolan colpisce la sua penultima vittima (“Crocodile“).
- Un poster e una maschera tratti da “White Bear”, così come un ape robotica da “Hated In The Nation” compaiono nella collezione di Rolo Haynes.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Metalhead 4×05 | ND milioni – ND rating |
Black Museum 4×06 | ND milioni – ND rating |
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Un tempo recensore di successo e ora passato a miglior vita per scelte discutibili, eccesso di binge-watching ed una certa insubordinazione.