Fin dal rilascio del primo teaser trailer se ne sono sentite tante sul live action di One Piece. Chi scrive, dopo aver visto la prima clip dedicata al progetto aveva immediatamente perso ogni speranza in un adattamento quantomeno dignitoso, salvo poi intravedere qualche tenue barlume dopo il rilascio del secondo trailer e soprattutto della breve clip riguardante backstage e interviste agli attori.
Certo, molte delle preoccupazioni sollevate dal primo trailer si sono poi rivelate fondate, in primis l’impossibilità di trasporre un manga/anime come One Piece in formato live action senza che quest’ultimo sembri un raduno di cosplayer con a disposizione un budget molto basso per i propri costumi, o anche l’imbarazzante CGI con la quale si dovrà avere a che fare ogniqualvolta Luffy allungherà uno dei suoi arti.
D’altro canto, però, dopo un primo episodio sicuramente sufficiente al netto degli evidenti difetti – soprattutto dal punto di vista visivo – al termine di questo secondo appuntamento sarebbe ingiusto accanirsi eccessivamente con un prodotto che, nonostante la sua natura pressoché futile e l’incomunicabilità tra medium completamente differenti con il quale dovrà sempre avere a che fare, quantomeno sta dimostrando di metterci cuore e passione.
PARRUCCHE BRUTTE E UNIFORMI DA GELATAI
“The Man In The Straw Hat” può sicuramente vantare un enorme “vantaggio” rispetto al suo predecessore: la ciurma di Shanks al completo per la prima volta in azione e l’iconico momento della consegna del cappello di paglia. Per tutti gli amanti dell’opera di Eiichirō Oda – chi scrive è un ultratrentenne che segue il manga e l’anime dai tempi delle scuole medie, quindi ora sapete con chi avete a che fare – la tavola raffigurante l’arrivederci tra Luffy e Shanks è uno di quei momenti stampati in maniera indelebile al pari della prima trasformazione di Goku in Super Sayan o del colpetto alla fronte di Itachi a Sasuke, sempre per rimanere in campo shonen estremamente mainstream. E sicuramente la messa in scena di questo momento “storico” non può che aiutare in termini di coinvolgimento, a dispetto dei già citati limiti tecnici della CGI e, in generale, dell’impossibilità di non rendere “cringe” l’assurdità di fondo che pervade l’opera di Oda, e che sul media televisivo con attori in carne e ossa obiettivamente non rende e non renderà mai allo stesso modo.
Bagī, che nell’unico frame presente nel trailer più che un clown sembrava una prostituta che va esclusivamente con i clown (citazione per intenditori), si è rivelato essere molto meglio del previsto. Apprezzato l’impegno di mantenere la caratteristica del naso da clown “vero”, tratto somatico innato nel character, e buona l’interpretazione di Jeff Ward (una delle poche facce “conosciute”, almeno per gli spettatori di Marvel’s Agents Of S.H.I.E.L.D.), peccato per la solita CGI e per alcuni vestiti dei membri della sua ciurma che sembrano appunto usciti fuori da uno degli stand del Lucca Comics. Nel complesso, comunque, lo scontro con Luffy non è poi così male e, come nel caso di Shanks, anche qui la puntata può contare su un potente effetto nostalgia: Bagī senza torso che viene scagliato via diventando – almeno nel manga – protagonista della prima mini-avventura, ad esempio, ma anche l’importanza dei “primi incontri” fatti dal protagonista, con Bagī appunto, sua nemesi se si guarda al potere del suo frutto, l’esatto opposto di quello di Luffy, ma anche con Koby, conosciuto nello scorso episodio ma che qui inizia la sua carriera da marine, e che di fatto è destinato a diventare il nemico giurato del protagonista nonostante il profondo legame che li unisce.
Grosso difetto, presente nel pilot, qui confermato e probabilmente (ma si spera di no) marchio di fabbrica anche dei restanti episodi, è la regia. Decisamente troppo televisiva e in più di un’occasione estremamente posticcia, la regia di Marc Jobst in questi primi due episodi è stato sicuramente uno dei fattori che ha contribuito a rendere questo live action ancora più “finto” di quanto già risulterebbe per sua stessa natura.
Chi scrive ha un forte odio nei confronti di questo particolare tipo di medium, in particolar modo quando si tratta di adattamenti da manga/anime giapponesi, che storicamente hanno dato ben pochi risultati positivi o anche solo dignitosi. E sebbene questo particolare adattamento finora abbia mostrato del potenziale, l’inutilità dell’operazione in sé, a parte quello del mero sciacallaggio ai danni di fans sfegatati o detrattori in cerca di polemica, rimane un puro e semplice dato di fatto.
Era davvero necessario un live action di One Piece? La risposta è un forte e chiaro NO. E 1090 capitoli, 1073 episodi, 15 film e 56 videogiochi dovrebbero bastare a motivare tale affermazione.
Quantomeno, in questo caso, ci si può consolare con il fatto che dal mero sciacallaggio di un franchise sia uscito fuori qualcosa di qualitativamente buono.
PASSIONE CE VOLE, PASSIONE
Appurati quindi limiti e difetti di quest’opera, cosa resta allo spettatore? Al netto di tutti gli aspetti negativi sopracitati, ciò che emerge è il cuore e l’impegno messo da cast e autori all’interno di un progetto che, a prescindere dalla sua inutilità in quanto live action, riesce comunque a regalare al suo pubblico quasi le stesse emozioni e atmosfere dell’opera madre.
Dopo due puntate è difficile dare un giudizio che non sia più di una semplice valutazione provvisoria di qualcosa che ha le stesse probabilità di concludersi, avendo ancora a disposizione sei episodi, in maniera positiva o in maniera negativa, senza contare che il momento sulla carta più promettente deve ancora arrivare, con la saga di Arlong Park e lo scontro tra Luffy e il capo della banda di uomini-pesce.
Al momento, comunque, come già si diceva all’inizio, sarebbe del tutto ingiusto valutare negativamente quanto visto finora, tenendo sempre a mente i limiti dal punto di vista del comparto tecnico, della regia e della rapidità della narrazione dovuta alla necessità di condensare decine e decine di capitoli in una manciata di episodi. Se è vero che il valore di un’opera si deve valutare anche e soprattutto in base alle emozioni che essa scaturisce nello spettatore, allora non si può far altro che valutare positivamente questo secondo episodio, che ha il pregio di portare sul piccolo schermo in maniera del tutto dignitosa uno dei momenti più iconici dell’opera di Oda, spingendo chi guarda a voler passare immediatamente all’episodio successivo una volta arrivato ai titoli di coda.
Certo, è anche vero che in questo Netflix ha sempre mostrato un talento eccezionale, riuscendo perfino a far credere a milioni e milioni di spettatori che La Casa Di Carta non fosse una totale pagliacciata senza capo né coda, grazie a uno storytelling così incalzante da oscurare le decine di buchi di trama e forzature narrative disseminate qua e là nel corso delle cinque stagioni della serie. Ma in questo caso, quantomeno, si possono dormire sonni tranquilli pensando che l’opera si poggia su basi ben più solide di una telenovela spagnola mascherata malamente da heist movie.
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In conclusione, nonostante le preoccupazioni iniziali e le evidenti limitazioni visive, il live action di One Piece dimostra un impegno sincero da parte del cast e degli autori nel portare l’opera originale sul piccolo schermo. Pur riconoscendo l’inutilità di tale adattamento, i due episodi iniziali riescono a catturare l’essenza dell’opera di Eiichirō Oda e a trasmettere emozioni autentiche. Il vero test, ora, sarà vedere se gli episodi futuri continueranno a rispettare l’essenza del manga, malgrado le sfide evidenti legate al lavoro di adattamento.
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Ventinovenne oramai da qualche anno, entra in Recenserie perché gli andava. Teledipendente cronico, giornalista freelance e pizzaiolo trapiantato in Scozia, ama definirsi con queste due parole: bello. Non ha ancora accettato il fatto che Scrubs sia finito e allora continua a guardarlo in loop da dieci anni.