Buona notte a tutti. Torna anche questa settimana il Late Night Show, l’appuntamento bimensile più atteso dagli appassionati delle serie tv e dagli stessi recensori di Recenserie, finalmente chiamati a dire la loro con opinioni non richieste al di fuori delle “restrizioni” delle recensioni. Così come i famosi Late Night Show americani da cui traiamo apertamente ispirazione, anche questo appuntamento, previsto ogni due giovedì notte, è necessariamente costituito da alcuni “ospiti” che in quest’occasione portano il nome di Dr. Jekill, Fabrizio e Giulia.
Il tema di questo quarto appuntamento riguarda la naturale contrapposizione che sta emergendo tra serie e docuserie. Ha senso la “serializzazione” di quelli che erano una volta dei documentari da 90 minuti solo per poterli raggruppare in questo nuovo trend? La parola ai nostri esperti…
- Istintivamente cosa preferisci: serie o docuserie?
DR. JEKILL: Dovendo scegliere direi serie, non fosse altro per il fatto che le seguo da più tempo e perciò ci sono più legato, mentre le docuserie ho cominciato a seguirle più recentemente.FABRIZIO: Dare una risposta secca sarebbe impossibile. Diciamo che va a seconda del momento e del mood. Se manca la voglia di stare dietro a trame intricate o di iniziare l’ennesimo recuperone eterno, la docuserie è il compromesso perfetto, a maggior ragione se l’argomento trattato è così surreale da sembrare quasi scritto a tavolino da un team di sceneggiatori folli – per citarne un paio viste di recente Conversation With A Killer: The Ted Bundy Tapes e Jeffrey Epstein: Filthy Rich.
GIULIA: Serie. Sicuramente perché è un genere collaudato e perché sono state proprio le serie ad avermi fatto appassionare alla televisione ed a generi che prima nelle mie letture non avevo mai esplorato come il giallo o il poliziesco. Essendo però proprio questi generi, tra gli altri, quelli che le docuseries mettono in scena ritengo che siano da esplorare e valutare tenendo conto della novità.
- Tra le docuserie che hai visto qual è quella che consiglieresti assolutamente e quali elementi l’hanno resa degna di nota?
DR. JEKILL: Allora IN GENERALE, tra quelle che ho visto quest’anno, senz’altro un posto d’onore spetta a The Last Dance per vari motivi. A parte il fatto che, se si è appassionati di pallacanestro (ma anche di sport in generale), è una serie da vedere obbligatoriamente, a livello di regia e mezzi tecnici è veramente di grande qualità rispetto ad altre docuserie. Allo stesso tempo c’è una cura maniacale per tutto quello che è lo storytelling e traspare continuamente un grande senso di epicità per cui è veramente difficile non entrare in empatia con questo prodotto anche se non si è per forza appassionati di sport. Non a caso tutte le successive docuserie sportive hanno preso più o meno spunto da questa come modello narrativo (lo si vede per esempio anche in Playbook). Per quanto riguarda invece le docuserie di cui ho fatto la recensione per il sito penso che Connected sia senza dubbio quella più interessante ed innovativa nel suo format: praticamente ogni episodio è strutturato come una “tesina scolastica” che comprende varie materie (umanistiche, scientifiche…); è un concentrato sullo scibile umano però spiegato in maniera veramente semplice ed accattivante, e anche abbastanza coerente con i vari “temi di puntata” per cui si segue tranquillamente senza troppa difficoltà.FABRIZIO: A parte le due già citate, un’altra docuserie molto interessante è Trial By Media, incentrata su alcuni dei processi che hanno suscitato maggior scalpore negli Stati Uniti e nel mondo, divenuti oggetto di discussione per l’opinione pubblica e spesso trasformati in veri e propri teatrini televisivi a prescindere dalla drammaticità delle vicende. Sei puntate, storytelling coinvolgente e qualità tecnica impeccabile frutto del lavoro combinato di alcuni dei migliori documentaristi contemporanei. In una parola: consigliatissima.
GIULIA: Our Planet per la qualità di quanto mostrato. E questo è uno degli elementi più importanti che ha reso degno di nota questa docuserie: l’obiettivo di questo genere è infatti suscitare una reazione, una risposta da parte del pubblico. Ovviamente anche le serie possono farlo ma la docuserie dovrebbe portare lo spettatore a porsi domande più stringenti circa il tema di ciò che sta visionando.
- Qual è il valore aggiunto di fare una docuserie rispetto ad un normale documentario?
DR. JEKILL: Sicuramente la struttura seriale riesce a sviscerare meglio qualsiasi argomento poiché può inserire più materiale ed informazioni suddividendolo in più episodi; penso inoltre che la struttura in più episodi consenta allo spettatore di poter selezionare meglio il contenuto che effettivamente interessa. Esempio: nella docuserie History 101, sempre su Netflix magari interessano solo determinati argomenti ma non tutta la serie completa; in questo caso nulla vieta di vedere solo gli episodi che interessano a me, mentre magari in un documentario unico, essendo un vero e proprio film, skippare oltre vuol dire perdersi magari dei passaggi importanti;. Ovviamente consente anche di fare il contrario, ossia decidere di selezionare anche quello che interessa di più; quindi credo che alla fine questa “malleabilità” della docuserie sia il principale punto di forza rispetto alla “rigidità” del documentario.FABRIZIO: Esattamente come accade per tutte quelle serie ispirate da film, il fattore fondamentale è sicuramente l’elemento “seriale”. Qualora non si tratti di docuserie antologiche, la forza più grande della docuserie è il maggior tempo a disposizione per poter raccontare una storia; ci si troverà così, come accade per le serie tv, completamente immersi in un universo narrativo del quale si conoscerà ogni minimo particolare, e di conseguenza lo spettatore riuscirà ad immedesimarsi maggiormente nei protagonisti delle vicende elaborando quindi anche un giudizio di valore più accurato perché plasmato su un numero maggiore di fatti raccontati.
Che poi in realtà io mi ricordo che quando da bambino guardavo Superquark ogni tanto capitavano delle brevi serie di documentari, magari due o tre puntate incentrate sullo stesso argomento, e ricordo che in quei casi nasceva proprio il desiderio di vedere “come sarebbe andata a finire”. Quindi in conclusione direi che il valore aggiunto sta nell’elemento seriale e nella conseguente fidelizzazione dello spettatore.GIULIA: Mostrare un punto di vista più oggettivo. La docuseries ponendosi come un approfondimento mirato su un tema dovrebbe mostrare i fatti così come sono ma bisogna ricordare che quello che si vede, alla fine, risente sempre di una percentuale anche piccola di soggettività, per quanto la si ammanti di oggettività. Il valore aggiunto sta nel fatto di poter mostrare chiaramente il fatto, la notizia, l’approfondimento anche attraverso immagini (o registrazioni) di repertorio. Ritengo però che la sintesi sia la chiave vincente per diffondere un messaggio e, insieme, la precisione “bibliografica”, che è ciò che contraddistingue un buon prodotto da uno meno: quindi, allungare troppo la narrazione con molti episodi rischia di eliminare quella precisione che ci si aspetta da tale visione. È nella precisione che il documentario classico risulta vincente: il suo tempo limitato porta a non dover riempire gli spazi vuoti con notizie poco attendibili o citazioni errate come accade, invece, nella docuseries Immigration Nation in cui Bertold Brecht è diventato Thomas Jefferson, lapsus, macroscopico rispetto ad altri presenti, che, a mio avviso, potrebbe essere dovuto proprio al fatto di dover riempire sei ore. Una docuseries può, però, in ogni caso, dilungandosi maggiormente, imprimere il concetto nella mente dello spettatore grazie alle parti recitate o al maggior numero di documenti e prove presentati.
- Lo sviluppo delle docuserie è stato efficace per favorire maggiormente la diffusione del genere documentario. Pensi che questo sia dovuto al più dinamico modo di diffusione del prodotto (suddivisione in episodi) o esclusivamente al fattore “moda” dovuto all’exploit su Netflix?
DR. JEKILL: Sicuramente il successo che ha avuto The Last Dance ha contribuito a far sì che il pubblico cercasse sempre di più prodotti simili, ma non credo che alla fine si sia creata una vera e propria “moda” per quanto riguarda il settore “non-fiction” che rimane comunque di nicchia rispetto alla fiction vera e propria. Anche dopo i successi di Fahrenheit 11/9 e di Fuocoammare si parlava di una rinascita del genere documentario ma poi non è che i successivi film documentari abbiano avuto tutto questo successo. È anche vero però che ultimamente c’è molta attenzione in questo settore (e anche l’interesse del pubblico sta crescendo sempre di più), e penso che il motivo sia dovuto al fatto che è il genere che permette più sperimentazione (proprio perché meno mainstream e quindi soggetto a dei cliché pre-confezionati) sia a livello tecnico che di storytelling. Per quanto riguarda invece il versante fiction c’è ad oggi un surplus di offerta, soprattutto di serie tv, che però presenta prodotti quasi tutti uguali (si veda ad esempio le mille mila serie “teen” netflixiane) e con trame già viste; di fronte a questo appiattimento si capisce bene il motivo per cui ad un certo punto il pubblico cerchi qualcosa di fresco e nuovo, e al momento questo si trova più nel versante “non-fiction”.FABRIZIO: Sicuramente il fattore moda e la straordinaria abilità di Netflix di indirizzare il suo pubblico verso le novità offerte dalla piattaforma sono state fondamentali in questo boom delle docuserie. Ma credo che anche il senso di colpa dei malati di binge-watching e la possibilità finalmente di utilizzare il loro “talento” per scopi più culturali abbia influito in parte sulla diffusione del genere. Una buona occasione per consigliare agli amici qualcosa di più elevato della solita comedy in evidenza sulla home di Netflix.
GIULIA: Le docuseries hanno sicuramente giovato al genere documentaristico divenuto di nicchia, svecchiandolo e portandolo a un livello successivo: come l’innovazione di Quibi (anche se il successo non arriva) con episodi da smatphone e la riduzione del numero di episodi delle serie dai canonici 22-24 a 10-13, così anche il documentario si è dovuto reinventare. Le docuseries con il loro formato a episodi e la possibilità di spalmare la visione nel corso di più giornate si sono presentate come un sapere di cui disporre in breve tempo e in un formato godibile, che impegna ma non troppo, rimanendo fedeli al genere di intrattenimento. L’interesse delle persone verso il genere documentario è un dato di fatto ma il fattore moda è sicuramente una spinta propulsiva in più. Netflix ha la capacità di rendere abbastanza interessante ogni sua produzione e, talvolta, ci riesce davvero fino in fondo, vedi il caso di Don’t F**k With Cats.
Grazie e buona notte a tutti.
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