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Se si volesse provare a riassumere quanto detto nelle precedenti recensioni sull’impressione che questa stagione di Doctor Who dà, lo si potrebbe fare con due semplici parole: passo indietro. Questo non vuole apparire per forza come concetto negativo. Talvolta, quando ci si rende conto di essersi spinti troppo in là, fare un passo indietro è cosa buona e giusta. In questo concetto ci sono tutti i difetti e i pregi di questa undicesima stagione, così come in questo sesto episodio.
“Demons Of The Punjab” ha quel lirismo che forse negli ultimi anni era mancato, in favore di trame sofisticate e dialoghi taglienti. La storia è una storia semplice, senza grandi fronzoli, catalogabile – neanche a dirlo – come filler, ma su questo ormai c’è da mettersi l’anima in pace. Ciò che funziona è che, di fronte agli ennesimi alieni trash ideati con neanche troppo sforzo, l’intero nucleo dell’episodio assume un carattere suggestivo, quasi maestoso, caratterizzato da musiche assolutamente azzeccate. Il confronto tra il Dottore e gli alieni, così come i toccanti momenti finali, elevano un episodio la cui trama altrimenti non sarebbe certo tra le più indimenticabili.
Volendo fare un paragone con un episodio del passato (molto più estremo, dal punto di vista del lirismo) si potrebbe pensare a “The Rings Of Akthaten”. Cosa succedeva in quel caso? Il Dottore e Clara finivano in un pianeta dove vigevano strani riti di successione, il tutto si risolveva con una foglia. Messo così, l’episodio sarebbe abbastanza dimenticabile, se non fosse per una sequenza con uno dei più bei monologhi di Matt Smith (inutile ai fini della trama) con sotto una delle migliori musiche partorite da Murray Gold. In “The Demons Of The Punjab” non vi sono monologhi strazianti, ma il clima quasi fiabesco che emerge ricorda perfettamente cosa è Doctor Who e quale sia stata la vera arma in più nel gradimento generale del nuovo corso partito nel 2005.
Ecco quindi un passo indietro positivo: riportare l’episodio in una dimensione meno ambiziosa ma che, con semplicità, possa soddisfare le esigenze estetiche del pubblico e dei fan. Certo, il passo indietro avviene anche con quanto comunicato dalla trama e da parte dei dialoghi. E in questo caso c’è ben poco di positivo.
Parlare di incongruenze di trama sarebbe inesatto, molto spesso Doctor Who ci ha abituato a ben altre forzature, difficili da digerire per alcuni. Ecco, in questo caso è più facile parlare di leggerezze, soprattutto alla luce di quanto detto nelle precedenti recensioni: siamo all’undicesima stagione, questo nuovo corso ha già un suo background da cui non ci si può troppo discostare. In questo senso l’episodio sorvola su molti aspetti. Esempio: gli alieni hanno una natura totalmente confusa. Prima assassini (perché erano assassini? Perché renderli assassini e non semplicemente alieni di natura misteriosa dall’aspetto minaccioso, confusi per assassini perché vicino al cadavere di un uomo anziano?), poi testimoni, quasi angeli della morte di quelle persone che muoiono sole, dopo che la loro specie è stata sterminata. Perché il Dottore non fa riferimento alla sua situazione, avendo avuto per moltissimo tempo sulla coscienza il suo stesso pianeta? Perché non c’è un minimo di introspezione sul TimeLord Lady? Ma soprattutto, la storia è molto molto simile a quella di “Twice Upon A Time“, dove in quel caso c’erano questi alieni che estraevano la coscienza/memoria delle persone in punto di morte (e si parla di 6 episodi fa, non di dieci anni fa).
Altra situazione: Yaz non altera il suo passato, è vero, ma entra direttamente nella sua storia personale. Innanzitutto perché il Dottore non tira fuori il concetto di fixed point in time, importantissimo per la mitologia, quando fa riferimento alla necessaria morte di Prem? Ma soprattutto, perché la nonna non ricorda Yaz alla fine dell’episodio? Tutti questi aspetti non sono veri e propri errori, ma sicuramente leggerezze o incongruenze con quanto mostrato nel più o meno recente passato della serie.
Se si volesse provare ad inquadrare questa nuova era di Doctor Who con un esempio poco lusinghiero, anche alla luce di questo episodio, si potrebbe tirare fuori il caso di “Father’s Day”. Episodio della prima stagione, con il Dottore interpretato da Eccleston, con Rose come companion. Sarebbe un’enorme ingiustizia per “Demons Of The Punjab” essere accostato a quell’episodio sicuramente non riuscitissimo (e in quel caso la mamma di Rose si ricordava delle figlia adulta, accanto al padre morente). I mostri che in quel caso uscivano dal cielo per correggere il paradosso non sono stati certo mai ripresi. Il nuovo corso di Doctor Who sembra voler prendere episodi come quello, riverniciarli, metterli a nuovo con un’estetica soddisfacente, come se si volesse rendere pulita, carina e lucente una direzione decisamente filler e trash. Che poi non è detto che non si possa in futuro rivelare una strategia vincente.
“Demons Of The Punjab” ha quel lirismo che forse negli ultimi anni era mancato, in favore di trame sofisticate e dialoghi taglienti. La storia è una storia semplice, senza grandi fronzoli, catalogabile – neanche a dirlo – come filler, ma su questo ormai c’è da mettersi l’anima in pace. Ciò che funziona è che, di fronte agli ennesimi alieni trash ideati con neanche troppo sforzo, l’intero nucleo dell’episodio assume un carattere suggestivo, quasi maestoso, caratterizzato da musiche assolutamente azzeccate. Il confronto tra il Dottore e gli alieni, così come i toccanti momenti finali, elevano un episodio la cui trama altrimenti non sarebbe certo tra le più indimenticabili.
Volendo fare un paragone con un episodio del passato (molto più estremo, dal punto di vista del lirismo) si potrebbe pensare a “The Rings Of Akthaten”. Cosa succedeva in quel caso? Il Dottore e Clara finivano in un pianeta dove vigevano strani riti di successione, il tutto si risolveva con una foglia. Messo così, l’episodio sarebbe abbastanza dimenticabile, se non fosse per una sequenza con uno dei più bei monologhi di Matt Smith (inutile ai fini della trama) con sotto una delle migliori musiche partorite da Murray Gold. In “The Demons Of The Punjab” non vi sono monologhi strazianti, ma il clima quasi fiabesco che emerge ricorda perfettamente cosa è Doctor Who e quale sia stata la vera arma in più nel gradimento generale del nuovo corso partito nel 2005.
Ecco quindi un passo indietro positivo: riportare l’episodio in una dimensione meno ambiziosa ma che, con semplicità, possa soddisfare le esigenze estetiche del pubblico e dei fan. Certo, il passo indietro avviene anche con quanto comunicato dalla trama e da parte dei dialoghi. E in questo caso c’è ben poco di positivo.
Parlare di incongruenze di trama sarebbe inesatto, molto spesso Doctor Who ci ha abituato a ben altre forzature, difficili da digerire per alcuni. Ecco, in questo caso è più facile parlare di leggerezze, soprattutto alla luce di quanto detto nelle precedenti recensioni: siamo all’undicesima stagione, questo nuovo corso ha già un suo background da cui non ci si può troppo discostare. In questo senso l’episodio sorvola su molti aspetti. Esempio: gli alieni hanno una natura totalmente confusa. Prima assassini (perché erano assassini? Perché renderli assassini e non semplicemente alieni di natura misteriosa dall’aspetto minaccioso, confusi per assassini perché vicino al cadavere di un uomo anziano?), poi testimoni, quasi angeli della morte di quelle persone che muoiono sole, dopo che la loro specie è stata sterminata. Perché il Dottore non fa riferimento alla sua situazione, avendo avuto per moltissimo tempo sulla coscienza il suo stesso pianeta? Perché non c’è un minimo di introspezione sul Time
Altra situazione: Yaz non altera il suo passato, è vero, ma entra direttamente nella sua storia personale. Innanzitutto perché il Dottore non tira fuori il concetto di fixed point in time, importantissimo per la mitologia, quando fa riferimento alla necessaria morte di Prem? Ma soprattutto, perché la nonna non ricorda Yaz alla fine dell’episodio? Tutti questi aspetti non sono veri e propri errori, ma sicuramente leggerezze o incongruenze con quanto mostrato nel più o meno recente passato della serie.
Se si volesse provare ad inquadrare questa nuova era di Doctor Who con un esempio poco lusinghiero, anche alla luce di questo episodio, si potrebbe tirare fuori il caso di “Father’s Day”. Episodio della prima stagione, con il Dottore interpretato da Eccleston, con Rose come companion. Sarebbe un’enorme ingiustizia per “Demons Of The Punjab” essere accostato a quell’episodio sicuramente non riuscitissimo (e in quel caso la mamma di Rose si ricordava delle figlia adulta, accanto al padre morente). I mostri che in quel caso uscivano dal cielo per correggere il paradosso non sono stati certo mai ripresi. Il nuovo corso di Doctor Who sembra voler prendere episodi come quello, riverniciarli, metterli a nuovo con un’estetica soddisfacente, come se si volesse rendere pulita, carina e lucente una direzione decisamente filler e trash. Che poi non è detto che non si possa in futuro rivelare una strategia vincente.
THUMBS UP | THUMBS DOWN |
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Forse è ancora una questione di abitudine, forse la vera colpa è di Moffat che ha creato tantissime aspettative, abituando di fatto gli spettatori ad avere questo tipo di aspettative su una serie che fa della verticalità di trama la sua ragione di esistenza. Tuttavia, anche gli ascolti testimoniano che ci sia un abbassamento nel gradimento o nella considerazione verso questo fenomeno televisivo che ha segnato generazioni. Speriamo si abbiano le idee chiare sull’effettiva direzione dello show.
The Tsuranga Conundrum 11×05 | 6.12 milioni – ND rating |
Demons Of The Punjab 11×06 | 5.77 milioni – ND rating |
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Approda in RecenSerie nel tardo 2013 per giustificare la visione di uno spropositato numero di (inutili) serie iniziate a seguire senza criterio. Alla fine il motivo per cui recensisce è solo una sorta di mania del controllo. Continua a chiedersi se quando avrà una famiglia continuerà a occuparsi di questa pratica. Continua a chiedersi se avrà mai una famiglia occupandosi di questa pratica.
Gli piace Doctor Who.